L’intima relazione tra fascismo, imperialismo e capitalismo
di Alessandra Ciattini - Futura Società
Molti hanno sostenuto che lo sviluppo del capitalismo sarebbe stato progressivo e avrebbe generato l’ampliamento delle libertà collettive e individuali. Gli eventi degli ultimi decenni dimostrano il contrario: il capitalismo giunto nella fase attuale, definita “forma tarda”, deve necessariamente essere maggiormente repressivo e coinvolgere le sue popolazioni nella guerra per mantenere al potere la sua classe dirigente.
Nel 2014 così scriveva Samir Amin: “Il fascismo non è sinonimo di un regime autoritario di polizia che rifiuta le incertezze della democrazia parlamentare elettorale. Il fascismo è una risposta politica specifica alle sfide che la gestione della società capitalista può trovarsi ad affrontare in circostanze specifiche”. Riprendendo quanto aveva scritto Lenin (“La reazione politica su tutta la linea è una caratteristica dell’imperialismo”), nel 1938 Lev Trotskij scrive: “Per la borghesia la democrazia è una necessità nell’epoca della libera concorrenza. Al capitalismo monopolistico, basato non sulla ‘libera’ concorrenza, ma sull’imperio centralizzato, la democrazia non serve affatto: lo ostacola e lo disturba. L’imperialismo può tollerare la democrazia sino a un certo momento, come un male inevitabile. Ma aspira intimamente alla dittatura” (Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973).
Ragionamenti che mi pare oggi non si possano smentire. Un critico moderato di Trump ha affermato che egli sta instaurando una dittatura civile, fatto confermato dalle ultime decisione della Corte suprema, la quale ha limitato il potere dei giudici distrettuali di bloccare le decisioni prese da livello nazionale dal presidente con i suoi ordini esecutivi, come quello di porre fine al diritto di cittadinanza per nascita in contraddizione con quanto prevede il XIV Emendamento della Costituzione. Secondo quest’ultimo, “tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti”. Nella sostanza, la Corte suprema ha autorizzato Trump a violare la Costituzione, mettendo a repentaglio lo Stato di diritto in linea con la pratica politica fascista.
Come molti storici, Samir Amin riconosce che le società in cui il fascismo trionfa non sono tutte uguali ma, a suo parere, avrebbero dei tratti comuni. Il primo: esso si afferma in società in crisi profonda, nella quale si trova l’attuale sistema capitalistico, con lo scopo di impedire la messa in discussione della proprietà privata. Il secondo: rifiuto categorico dei valori formali della democrazia (riconoscimento dei diritti, uguaglianza, inclusione) e richiamo ad aspetti metastorici come quello della razza, della religione, della cultura con un balzo verso il passato. Si pensi al mito dell’impero romano per Mussolini o dell’America grande di Trump.
Nonostante questi tratti comuni, le società fondate sul fascismo si sviluppano in contesti storici differenti e, dunque, presentano anche caratteristiche diverse. Così le distingue Samir Amin: 1) Il fascismo delle società capitalistiche sviluppate, tra le quali si possono inserire i già imperialisti Usa che adottano questa svolta autoritaria per riconquistare il loro ruolo egemonico in un mondo che sta per essere spartito in un altro modo. 2) Poi, ci sono le società fasciste di secondo grado ben rappresentate, per esempio, dal regime instaurato dal fatidico “duce”. 3) Il fascismo delle potenze sconfitte come il regime francese di Vichy riconosciuto dagli Usa. 4) Il fascismo delle società dipendenti dell’Europa orientale, le cui classi dirigenti guardarono con favore all’ideologia hitleriana.
In questa sede ci occuperemo solo della prima categoria, facendo esplicito riferimento alla controrivoluzione avviata da Trump, che alcuni hanno definito erroneamente isolazionista e pacifista.
Il direttore della prestigiosa rivista «Monthly Review», J. Bellamy Foster, non condivide questa interpretazione e sostiene che il cambiamento globale nella politica estera degli Stati Uniti sotto l’attuale presidente sia “dovuto a un approccio ipernazionalista al potere mondiale radicato in settori chiave della classe dirigente, in particolare nei monopolisti dell’alta tecnologia, così come nei sostenitori di Trump, in gran parte appartenenti alla classe medio-bassa”. Questi ultimi vengono identificati con gli operai bianchi non laureati e sindacalizzati, che col neoliberismo hanno perso molti dei loro privilegi e sono stati sprofondati in basso nella scala sociale.
Secondo Bellamy Foster, il cambiamento di rotta, intrapreso da questa frazione capitalistica, impersonata da Trump, è cominciato già al primo mandato di quest’ultimo e si fonda sulla rinuncia al “sistema di regole” – di fatto mai rispettato – instaurato alla fine della Seconda Guerra mondiale, alla continuazione del conflitto con la Russia tramite l’Ucraina, sull’imposizione delle “belle tariffe” contro i più stretti alleati e coloro che sono ritenuti i più pericolosi nemici, la Cina e l’emergente Sud globale(i Brics). Orientamento osteggiato da altri settori imperialistici (si veda l’ipotesi del nuovo partito di Musk) che, invece, disperatamente avrebbero continuato a colpire la Russia (questione sui cui Trump sembra aver fatto una nuova piroetta), sia pure sempre con uno sguardo aggressivo vero la Cina e verso chi, di fatto, sta ridimensionando il progetto egemonico a lungo termine degli Usa. Il nostro capocirco – così lo hanno chiamato – ha ipotizzato un’azione bellica sincronizzata della Cina per riconquistare Taiwan e della Russia per invadere un qualche territorio europeo, senza indicarne le ragioni, come del resto è abituato a fare. Non ha capito che i nemici hanno perfettamente capito la crisi irreversibile del grande impero e stanno aspettando di vedere il cadavere portato dalla corrente, sia pure consapevoli che tale crisi avrà dei costi.
Probabilmente, siamo dinanzi a una strategia di rilancio dell’imperialismo il quale, tuttavia, in un contesto diverso da quello unipolare deve ora assumere necessariamente un volto diverso, più feroce e truce. La cosiddetta “Dottrina Trump” sarebbe addirittura antimperiale, nel senso che, come evidenziano la spietata politica antimigranti e il trattamento sprezzante di amici e nemici, considera pericolosissimo il carattere multietnico dell’impero che, d’altra parte, non può esser cancellato. Inoltre, rinnega il globalismo, scaturito dalla stessa logica capitalistica, perché ha favorito le potenze emergenti, in primis la Cina, appropriandosi di quanto sarebbe spettato “di diritto” al “miliardo d’oro” o all’élite anglosassone abituata da decenni a dominare.
Pilastro di questa dottrina è il pensatoio American Compass, i cui temi sono quelli che, in genere, attribuiamo ai cosiddetti rossobruni, assai critici dei processi scatenati dal neoliberismo a partire dagli anni ’70 del Novecento, e convinti che la salvezza si possa trovare in “un programma economico conservatore per sostituire la fede cieca nel libero mercato, concentrandoci sui lavoratori, sulle loro famiglie, sulle loro comunità e sull’interesse nazionale”. Consapevoli che neoliberismo ha provocato la stagnazione economica e la deindustrializzazione, vogliosi di difendere il capitalismo dall’eccesso di finanziarizzazione, propongono l’“economia conservatrice”. Quest’ultima considera “i liberi mercati un mezzo per raggiungere un fine, non un fine a se stessi. Sono necessari, ma non sufficienti per raggiungere i fini propri dell’economia: non solo l’aumento dei consumi, ma anche l’espansione della capacità produttiva nazionale, la preservazione delle istituzioni e il sostegno alle famiglie”. Pertanto, nella sua visione, le imprese concorrenti tra loro debbono dirigere i profitti investendoli nella produzione e nell’“equa remunerazione del lavoro”. In tale contesto, secondo gli economisti conservatori, addirittura le politiche pubbliche svolgerebbero un ruolo indispensabile nel mantenimento di tali condizioni.
Come si vede, lo stesso tentativo proposto dal nazifascismo (ma anche dalla Chiesa cattolica) per ricomporre le lacerazioni prodotte dallo stesso capitalismo, volto, da un lato, a procurarsi una base popolare disponibile al rilancio alquanto incerto della produzione capitalistica, dall’altro a scaricare i costi di questo processo al di fuori della “nazione”, ossia sui nemici esterni, malvagi e inaffidabili come la Cina comunista. Si ricordi che proprio recentemente il Pcc ha raggiunto 100 milioni di iscritti. Del resto, come si evince dal comportamento dello stesso Trump, in particolare dalla legge recentemente approvata relativa al budget federale, non sembra proprio che la massa popolare, irretita dalla campagna elettorale, venga beneficiata. Si prevede che circa 40 milioni di statunitensi saranno danneggiati dai tagli ai vari programmi di assistenza, medici, alimentari e tra questi ci sono molti elettori dell’arrogante e contraddittorio presidente che rischia di perdere il controllo del Congresso nelle elezioni di medio termine del 2026. D’altra parte, il nostrano fascismo significò tagli significativi ai salari, mentre nulla si fece contro gli arricchimenti, come promesso, dovuti alla produzione militare che aveva rifornito gli eserciti durante la Grande Guerra.
Sorgono molti dubbi sul realismo di questo programma. Per esempio, il noto economista statunitense Richard Wolf osserva che l’auspicata reindustrializzazione non ha alcuna base razionale: costerebbe troppo e nessun capitalista si azzarderebbe a fare trasferimenti di questa portata nell’incertezza in cui è sprofondato il regime di Trump, che oggigiorno minaccia dazi e poi cambia idea. Inoltre, anche grazie alle politiche negatrici del sostegno dello Stato ai lavoratori, questi ultimi dovranno essere remunerati con salari che garantiscano loro tutti i bisogni non coperti dall’assistenza pubblica, almeno al minimo, e, pertanto, il costo del loro lavoro sarà più elevato., come del resto è sempre stato negli Usa rispetto ai Paesi periferici.
Tornando all’America Compass, in un suo report del 2023, questo sosteneva la necessità di spezzare tutte le relazioni economiche con la Cina (transazioni commerciali, accordi produttivi, trasferimenti di materie prime), non solo per una valutazione prettamente economica, ma anche per una convinzione ideologica paranoica: attraverso di esse l’ideologia comunista potrebbe penetrare nel Paese che difende con maggiore forza la “libertà di impresa”.
Questi toni apocalittici sono anch’essi espressione dell’ideologia nazifascista che ha bisogno di molta enfasi e di un perfido nemico per tenere in riga la popolazione, colpendo chi si avvicina minimamente a esso, e per convogliare su di esso tutto il malessere e il malcontento. Si pensi al complotto giudeo-comunista propagandato dal nazismo; non molto diverso è il mito continuamente ripetuto, secondo cui i russi sarebbero alle porte. Ideologia nazifascista che dispiega tutti i suoi insiti contenuti volgari e plebei, giacché in mancanza di argomenti occorre ricorrere a parole forti che colpiscano emotivamente e non facciano ragionare come le espressioni “Cercano per baciarmi il c… o Putin che ci getta solo m…” pronunciate dal grande boss.
Per comprendere i fondamenti della politica economica trumpiana, per molti analisti disperata, leggiamo quanto afferma Peter Navarro, consigliere per il commercio e la manifattura, il quale sostiene che per difendere i loro alleati gli Usa spendono tanti dollari e per questa ragione sarebbero costretti a indebitarsi, emettendo titoli che vengono comprati ovunque. La richiesta di questi titoli, ora decrescente, mantiene alto il tasso di cambio del dollaro; tasso elevato che non favorisce le esportazioni Usa e di qui lo squilibrio tra importazioni ed esportazioni, dovuto anche alla riduzione della quota di Pil prodotta nella potenza in crisi. Tenendo presenti queste considerazioni, sembrerebbe che la politica di Trump e dei suoi fedeli sia rivolta in primis al contenimento del debito (anche se contraddittoriamente lo ha esteso) e degli enormi interessi che esso genera e che, probabilmente, sono impagabili. La strada scelta, ma che potrebbe essere controproducente, sarebbe quella di raggiungere la svalutazione del dollaro, la quale dovrebbe favorire il rilancio delle esportazioni. Ciò spiega le richieste rivolte da Trump alla Fed perché riduca i tassi di interesse, che alti rendevano attrattivi i bonus Usa, ma c’è un ma. Se venisse applicato questo rimedio forse sarebbe peggiore del male: renderebbe i bonus meno interessanti per gli invisibili investitori e provocherebbe una fuga di capitali verso luoghi più stabili e remunerativi, senza parlare delle conseguenze sul tenore di vita delle già immiserite masse popolari Usa. Questo rischio è messo in luce da Stephan Miran, altro consigliere della Casa bianca e uno degli estensori del Progetto 2025.
Aggiungiamo che l’uso del dollaro continua a essere ridimensionato: recentemente Putin ha dichiarato che le transazioni tra i Brics (52% popolazione mondiale, 45% del Pil) avvengono al 90% con l’impiego di monete nazionali. Inoltre, in seguito all’emergere di nuove potenze, specializzate nello sviluppo di nuovi armamenti micidiali, dotate di un’economia più dinamica, gli Usa sono stati privati in grande misura della loro forza di deterrenza e si trovano a fronteggiare un gran numero di Paesi che intendono sempre più rendersi indipendenti dalle grandi istituzioni internazionali, come la Bm e il Fmi, dominati dall’ex grande impero. Secondo alcune proiezioni, nel 2050 gli Usa saranno la terza potenza dopo Cina e India, Regno Unito, Germania, Francia si collocheranno al decimo posto e successivi. Ovviamente, si tratta solo di ipotesi e i colpi di scena non sono mai esclusi.
Molti autori, sin dagli ’70 del Novecento, hanno sostenuto l’idea che il capitalismo in quella fase storica avesse cambiato alcuni dei suoi connotati, pur, ovviamente, restando invariata la sua essenza. Ernest Mandel aveva coniato l’espressione “tardo capitalismo” o Terza fase dell’imperialismo, che costituisce l’ulteriore sviluppo dell’imperialismo classico, perché il capitalismo è caratterizzato da momenti di espansione e di contrazione (le onde larghe), dovuti soprattutto alle sue contraddizioni interne. Secondo l’economista belga, tratti del tardo capitalismo sono l’espansione del processo di accumulazione, l’internalizzazione e centralizzazione del capitale, l’automatizzazione della produzione, l’avanzamento tecnologico, lo sviluppo del settore dei servizi, la riduzione del tempo di circolazione del capitale e l’economia di guerra permanente. Altri aspetti da aggiungere sono l’aumento del ruolo delle multinazionali, il consumo di massa che diventa insostenibile a causa della riduzione delle risorse naturali, il superamento dello Stato-nazione –previsto anche da Z. Brzezinski –, imperialismo indiretto o neocolonialismo, crisi di riproduzione a causa dell’aumentata competizione e dell’aspra lotta per le risorse disponibili, la persistenza dello scambio ineguale tra il Nord e il Sud del mondo. Tutti questi elementi rendono più possibile lo scatenamento di guerre tra queste oligarchie, che vogliono affermarsi o non vogliono perdere il potere conquistato.
Samir Amin, invece, impiega l’espressione “capitalismo monopolico” per indicare il fatto che i processi di concentrazione e di centralizzazione del capitale hanno fatto sì che ogni attività umana sia posta sotto il suo stretto controllo, generando il “capitalismo monopolico generalizzato”. Esaminando il Piano Marshall, nella stessa ottica negli anni ’70 Michel Clouscard aveva osservato come tutta la sfera del tempo libero, dello svago, delle vacanze era stata completamente mercificata a tutto vantaggio delle corporazioni Usa, che con questi mezzi hanno innescato l’americanizzazione del continente europeo. Da quest’ultima è scaturita l’impossibilità di distinguere tra le varie classi medie e basse che, sostanzialmente, hanno adottato lo stesso stile di vita.
Benché questi strumenti continuino a essere impiegati, oggi, assai preoccupate, le oligarchie dominanti (vedi la deportazione dei migranti) ricorrono all’uso dell’esercito, della polizia, del sistema carcerario, perché occorre colpire chiunque si rifiuti di accettare l’ideologia dominante (il pericolo della Russia e della Cina) e convincerlo ad accettare il suo sfruttamento, magari anche a costo della vita in caso di guerra, che taluni descrivono come inevitabile e necessaria per “salvare la civiltà”.
Come si può ricavare da queste rapide note, il passaggio storico dal capitalismo liberale a quello tardo e sempre più imperialistico non è stato caratterizzato dall’ampiamento della “libertà collettiva”, ma dall’estensione della libertà di quei pochi (l’1% della popolazione) che gestiscono come vogliono il nostro destino. La natura profonda di questa fase capitalistica, definita anche “capitalismo d’organizzazione”, sta nell’esclusione del 99% della popolazione da una partecipazione attiva e responsabile alla vita sociale e nella sua riduzione a puri esecutori, mentre le potenti oligarchie, integrate dai tecnocrati ormai divenuti anche decisori politici, persistono nel raggiungimento dei loro scopi. E per mantenersi in questa posizione privilegiata, infischiandosi del sacro Stato diritto, oggi hanno sempre più bisogno di repressione, violenza, autoritarismo e fascismo, per cui questi ultimi non sono meramente episodici, ma intrinseci al sistema. E con essi dovremo fare i conti.