“Palazzina LAF”: ancora cinema sociale italiano

“Palazzina LAF”: ancora cinema sociale italiano

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di Laura Baldelli*

Oltre essere attore e musicista, ora regista e sceneggiatore, Riondino è anche un attivista che non ha dimenticato le origini operaie della sua famiglia con il padre operaio all’Ilva di Taranto e la vita vissuta nella città offesa dalle politiche scellerate dei governi italiani, soprattutto dopo la privatizzazione dell’acciaieria.

Infatti osò contestare qualche anno fa in tv il segretario nazionale della CGIL Landini per la latitanza dei sindacati e le connivenze dei governi nazionali e regionali di fronte all’azione della magistratura; inoltre assieme ad altri grandi artisti come Diodato e Roy Paci, organizza dal 2013 con il “Comitato Cittadini e Lavoratori e Pensanti”, il concerto “Uno maggio Taranto libero e pensante”, in alternativa a quello organizzato dalla CGIL a Roma: un evento di denuncia per i diritti delle donne e degli uomini, dei lavoratori/trici e di tutela dell’ambiente nel parco archeologico delle mura greche “Pierre Wuilleumier” della città.

Riondino sceglie quindi per la sua prima opera un film duro di denuncia sociale, un pezzo di Storia italiana dimenticata, una storia di lavoro oltraggiato di cui la politica ed il parassitario capitalismo italiano devono vergognarsi.

Riondino sceglie una regia affatto accattivante, una storia senza redenzione, osa dire la verità, scegliendo uno stile che alterna il realismo con il grottesco, come Elio Petri ne La classe operaia va in paradiso, per dare un’intensità drammatica ai disagi emotivi procurati dal mobbing agli “internati” nella palazzina LAF dell’acciaieria. 

Riondino non è un artista improvvisato: nel suo curriculum formativo ci sono l’Accademia di Arte Drammatica di Roma ed i laboratori con Emma Dante, nonché una costante esperienza di cinema, televisione e teatro, senza tralasciare la musica; nel film è co-sceneggiatore con il bravo Maurizio Braucci, ispirato dal libro-reportage Fumo sulla città di Alessandro Logrande, purtroppo deceduto a soli 40 anni nel 2017, una perdita per il giornalismo italiano, quello serio d’inchiesta, scrittore di una nuova letteratura che parla di lavoro e sceneggiatore teatrale. E in tutto il film aleggia il teatro, specie le scene nella Palazzina LAF.

Fumo sulla città mette a fuoco le contraddizioni del Mezzogiorno, la cattiva politica, i sogni infranti di riscatto sociale con il lavoro e tutti i segni premonitori dell’idea di sviluppo segnata dall’industrializzazione pesante senza salvaguardia della salute dei lavoratori e del territorio, mettendo a rischio la vita stessa, nella Taranto città-laboratorio-urbano tra ciminiere dell’Ilva e il mare, che soccombe davanti al nodo cruciale: salute/lavoro. Molte storiche masserie intorno alla città a causa dell’inquinamento andarono in rovina e con esse allevamenti e colture di pregio.

Co-protagonista accanto a Riondino, Elio Germano, altro attore che non si tira indietro di fronte alle denunce sociali, convinto che l’artista non debba solo intrattenere ma abbia anche questo ruolo e compito nella società. 

Non è la prima volta che lavorano assieme ed entrambi ci regalano due straordinarie interpretazioni degne dell’eredità di un grande Gianmaria Volonté; con loro altri bravi ed efficaci attori italiani come Vanessa Scalera e Paolo Pierobon, che testimoniano un cinema italiano di grandi potenzialità creative ed espressive, che merita investimenti economici, perché oltre che produrre informazione e cultura, l’industria cinematografica dà lavoro a molte professionalità. 

La narrazione è sempre in bilico tra il dramma e il grottesco, grazie all’ottimo montaggio di Julien Panzarasa, che dà un ritmo dinamico al film, che con la fotografia di Claudio Colafrancesco e le musiche di Teho Teardo e la canzone finale di Diodato, ci sintonizzano dentro la storia: una storia che ci riporta nel 1997 dopo le privatizzazioni del governo Dini, quando nel 1995 l’Italsider, in seguito alla crisi dell’acciaio, venne svenduta per 1.400 miliardi di lire, contro il reale valore di 4000 miliardi di lire, al gruppo di Emilio Riva, il pioniere della siderurgia in Europa, con l’impegno di investimenti per ridurre l’impatto ambientale, dato che era già noto e preoccupante l’aumento di tumori in città. 

Delle privatizzazioni delle migliori aziende italiane si parlò per la prima volta nel 1992 sullo yacht Britannia durante la festa della Repubblica nel meraviglioso arcipelago toscano, durante il governo Amato, un altro “salvatore” della Patria. 
Il tradimento del popolo italiano avvenne in mezzo alla migliore bellezza italiana e nel giorno che si celebra la nostra Repubblica fondata sul lavoro, nata dalla Resistenza con una grande Costituzione; iniziò lì la svendita del patrimonio costruito con il lavoro degli Italiani, che permise quel programma di civiltà del welfare, che oggi non si vuol più mantenere. La bellezza non ci ha salvato, né ci salverà, noi non siamo il FAI, non crediamo nel mecenatismo, crediamo nel diritto dell’uguaglianza, nella lotta di classe per la libertà dalla schiavitù del capitale, noi siamo Comunisti.

Lo stabilimento siderurgico Italsider di Taranto risale al 1965, un’azienda IRI, con sede dell’ormai tristemente noto quartiere Tamburi e l’acciaieria fu considerata una grande opportunità di lavoro per il Meridione; negli anni del boom economico si sacrificò l’impatto ambientale, in nome dello sviluppo e del progresso nel miope progetto di posizionare al Sud raffinerie ed industria pesante, dismettendo la nostra agricoltura e la filiera alimentare.

Il nuovo padrone non mantenne gli impegni, anzi decise razionalizzazioni, cioè tagli sulla pelle dei lavoratori, mettendo in atto quel piano terribile in cui letteralmente si rinchiusero dentro la fatiscente palazzina LAF ben 79 tra lavoratori e lavoratrici con mansioni altamente professionali come informatici ed ingegneri, a non fare nulla, umiliati e privati di ogni strumento e mansione di lavoro, senza seggiole e riscaldamento, con l’obiettivo di portarli ad accettare il demansionamento, ma soprattutto costringerli alle dimissioni; pagati per non lavorare, con l’infamia di lavativi agli occhi degli altri lavoratori, mentre invece vivevano l’inferno del mobbing, fenomeno neanche conosciuto in Italia, tanto che gli si è dato un nome in lingua inglese, la lingua del capitale, dove già lo avevano sperimentato. 

La Palazzina LAF fu un vero reparto-lager, un laboratorio per sperimentare le strategie aziendali al fine di piegare psicologicamente i lavoratori scomodi: la storia dei lavoratori di ieri serve a capire da dove iniziarono gli attacchi al lavoro tutelato e quanto oggi i danni del capitalismo neoliberista vengano scaricati su tutti i cittadini che pagano di tasca propria i costi della cassaintegrazione e della disoccupazione.

Si usò la strategia del mobbing perché esisteva la tutela dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori legge 300/1970, contro il licenziamento arbitrario senza una giusta causa; tutela che oggi i lavoratori non hanno più, perché il governo dei migliori, quello di Monti con la riforma del lavoro Fornero nel 2012 ed in seguito quello del governo Renzi con il Job Act nel 2015, hanno spazzato via.

Il film denuncia la latitanza del sindacato ed evidenzia la scomparsa della coscienza di classe, ma d’altronde l’abiura del PCI e l’ammaino della Bandiera Rossa sul Cremlino dava i suoi frutti avvelenati. 

Fu il primo caso di mobbing riconosciuto, processato e condannato in cassazione l’8 marzo del 2006; tutta la storia degli impianti siderurgici di Taranto meritano un grande approfondimento storico-economico-sociale, alla luce delle strategie aziendali e del rapporto salute-lavoro e territorio.

Riondino in giro per l’Italia a promuovere il film, dimostra chiara consapevolezza politica, frutto dell’esperienza dei ricordi personali e dell’attivismo sociale mai abbandonato, dove mette al servizio della causa l’arte e la sua persona. Con questa opera prima ci dà strumenti per capire, “fa memoria ed informazione”, rifuggendo ogni forma accattivante, non parla alle vacue e temporanee emozioni degli spettatori, anzi spinge il pubblico a documentarsi, a ragionare, a ripercorrere e risalire alle cause di come oggi, e non da oggi, il Paese Italia abbia dismesso i veri progetti di sviluppo del paese, in favore del capitalismo transnazionale e soprattutto quello rapace della finanza.

Le privatizzazioni delle nostre grandi aziende hanno disperso un patrimonio di conoscenze, hanno ingannato gli Italiani raccontandogli che saremmo diventati più competitivi, regalando alla concorrenza il frutto del lavoro del popolo italiano, che invece si ritrova povero, in un degrado culturale, dove il paese non ha più sovranità di fronte alle grandi potenze capitalistiche che continuano a depredarci chiedendoci denaro pubblico, per fomentare i conflitti neocoloniali in giro per il mondo. 

L’Ilva di Taranto del gruppo Riva è l’emblema dello scempio del connubio della politica corrotta con l’imprenditoria italiana; non bastò il lavoro della magistratura che dopo diciassette anni dispose il sequestro dell’acciaieria per grave violazione ambientale e il pubblico ministero Patrizia Todisco ne dispose il sequestro, perché nel 2012, con Monti, ancora il governo dei migliori, con il decreto salva-Ilva, autorizzò il proseguimento della produzione. Un esempio di come la politica, tradendo la legalità, salva i poteri economici. 

La famiglia Riva ha percorso diverse vicende giudiziarie, tra cui il trasferimento illegale di denaro all’estero e nel 2015 il governo Renzi commissariò lo stabilimento che finì in amministrazione straordinaria e ancora una volta la magistratura si schierò contro Riva con l’accusa di bancarotta fraudolenta e di aver sperperato il patrimonio dello storico stabilimento. La fece franca e fu accettato l’inaudito da alcuni giudici che avvalorarono che l’azienda si fosse spesa per migliorare l’ambiente.
Nel 2016 si accaparrò lo stabilimento più grande d’Europa, la AncelorMittal e ricevette lo scudo penale, cioè l’immunità sui danni ambientali del passato. Ne furono contenti anche i sindacati e lo stato italiano rinunciò alla nazionalizzazione.

La AncelorMittal, colosso franco-indiano, scaricò sui lavoratori, con 3.000 licenziamenti, i fantomatici risanamenti ambientali, mai messi in atto, perché il contratto non prevedeva neanche i tempi. I nuovi padroni anno dopo anno hanno attuato indisturbati il piano di disimpegno, sfruttando gli impianti, lesinando sulla manutenzione e la sicurezza sul lavoro, nessuna innovazione, continuando a licenziare, tanto che oggi se ne contano 4.500 in cassa integrazione senza reintegro, che gravano sullo stato italiano, con la minaccia ripetuta di spegnere gli altoforni.

Il bilancio di questa scellerata privatizzazione sono i tanti morti sul lavoro, i migliaia di licenziamenti e le migliaia di morti per le emissione tossiche su tutto il territorio, perché nessun capitalista sacrifica il proprio profitto per la salvaguardia della salute e del territorio e dell’occupazione.

Grandi responsabilità morali, civili e politiche sono anche delle istituzioni locali come l’ARPA PUGLIA che non ha vigilato sulle emissioni tossiche e i governi regionali guidati da Nichi Vendola ininterrottamente dal 2005 al 2015. 

Si è fatto di tutto per invalidare anche il referendum consultivo del 2013 dei cittadini di Taranto e nello stesso anno l’Italia è stata condannata a pagare dall’UE per non aver garantito il rispetto delle direttive UE a tutela della salute e dell’ambiente; inoltre ArcelorMattel minaccia di recedere dal contratto ogni volta che si chiede conto del risanamento del territorio, anzi il “killer dell’acciaio” pretende che se ne occupi lo stato italiano.

Ho solo accennato ai gravi problemi di Taranto e di tutta l’industria italiana, meritano analisi approfondite e competenti; da qui si comincia per formare la coscienza di classe e stare nelle lotte.

*docente, della redazione di “Futura Società”, giornale del Movimento per la Rinascita Comunista

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