Perché il golpe in Sudan ha irritato gli Stati Uniti
Un colpo di Stato davvero strano quello avvenuto in Sudan il 24 ottobre, che ha suscitato meno proteste internazionali di altri consumati di recente (vedi il caso del Myanmar), nonostante abbia messo fine a un processo di democratizzazione avviato due anni fa (dopo la ribellione che ha posto fine al regime di Omar al Bashir) e abbia visto scontri di piazza con morti e feriti.
La fine del diumvirato
Un golpe in piena regola, che ha posto fine al diumvirato che avrebbe dovuto guidare il Paese verso nuove elezioni e a una nuova fase politica.
In questo periodo di transizione era stato previsto che il potere fosse diviso tra militari e civili: la presidenza ai militari, con il generale Abdel Fattah al Burhan, e il governo – guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok – ai civili.
Gli accordi prevedevano che Burhan lasciasse il suo incarico a fine ottobre, scadenza che non ha rispettato, avocando a sé tutto il potere e arrestando il primo ministro, gli altri membri del governo e figure di spicco della società civile.
Un golpe autocefalo, dunque, non eterodiretto, almeno per una volta, anche se diversi giornali israeliani hanno ipotizzato che la mossa di Burhan si sia giovata del supporto del loro Paese,
il più esplicito in tal senso è stato Barak Ravid, corrispondente di Walla News e collaboratore di Axios, che ha scritto su twitter: “Nelle ultime settimane, diversi funzionari del governo israeliano si sono ingeriti nella politica interna del Sudan. Ciò solleva grandi interrogativi su ciò che Israele sapeva di quanto sta accadendo adesso a Khartoum e quanto le sue mosse abbiano influenzato gli eventi”.
“Il sospetto che i funzionari israeliani fossero a conoscenza del complotto, se non addirittura complici – scrive Yonatan Touval, su Haaretz – è emerso quasi subito, quando è stato reso pubblico un documento che riferiva di una visita segreta di una delegazione della sicurezza sudanese in Israele poche settimane prima [del golpe]”.
“Un sospetto che sembrava confermato in pieno alla luce della rivelazione che una delegazione israeliana, composta da personale della Difesa e del Mossad, si era recata a Khartoum all’indomani del golpe per colloqui”.
Gli Accordi di Abramo
Al di là dei sospetti (non provati), Touval rileva come Israele non sia uno spettatore disinteressato di quanto avviene in Sudan, perché Khartum è stato uno dei pochi Paesi che hanno aderito agli accordi di Abramo, attraverso il quale alcuni Stati arabi hanno stretto legami diplomatici con Tel Aviv nonostante resti aperta la questione dello Stato palestinese (motivo del diniego precedente, conservato dai Paesi arabi che non vi hanno aderito).
Sul punto Touval rileva come per alcuni Paesi tale accordo sia stato raggiunto con pressioni e lusinghe, che hanno impedito un’intesa profonda, esponendo i governi che hanno compiuto questo passo a rischi, essendo forti le resistenze della società civile.
Nel caso di Khartum, Touval ricorda la “decisione sconsiderata dell’amministrazione Trump dello scorso anno di costringere Khartoum ad accettare di normalizzare le relazioni con Gerusalemme in cambio di un pacchetto di incentivi finanziari vitali, tra i quali l’agognata rimozione del Sudan dall’elenco degli sponsor del terrorismo”.
Nel caso del Sudan, spiega Touval, la pressione per fare tutto e subito nasceva dal desiderio di Netanyahu di ottenere un rapido successo per la sua iniziativa, unito a quello di Trump di accattivarsi le simpatie della comunità ebraica e degli evangelical (sensibili alla causa israeliana) a “due settimane dalle presidenziali” Usa.
Questo il commento di Touval: “Il rischio che tale mossa aggiungesse ulteriori attriti al processo politico interno del Sudan – un processo che, in caso di insuccesso, non solo cancellerebbe le possibilità del paese di diventare una democrazia orientata verso l’Occidente, ma lo getterebbe in un prolungato caos politico e forse anche in una guerra civile – era stato allegramente ignorato. Il Sudan, dopotutto, era un trofeo, non un partner”. Considerazioni ragionevoli quelle di Touval, che fanno luce su un fattore evidentemente non secondario del golpe.
La rabbia di Washington
Washington ha registrato con grande fastidio quanto avvenuto in Sudan, tanto da sospendere i finanziamenti che aveva destinato al Paese africano (700 milioni di dollari), chiedendo a più riprese ai militari di fare marcia indietro.
Significativo che, per cercare di invertire tale processo, l’amministrazione Biden si sia rivolta a Israele, alla quale ha chiesto di far pressioni su Khartum. Particolare che denota l’importanza che gli Stati Uniti accreditano ai rapporti tra Tel Aviv e il generale golpista, che aveva spinto sugli accordi di Abramo (contro il parere del primo ministro, che ha dato voce alle resistenze, sul punto, della comunità islamica).
In una conversazione telefonica avvenuta giovedì, il Segretario di Stato Usa Antony Blinken ha chiesto al generale al Burhan di rilasciare i detenuti, compreso il primo ministro Hamdok.
Richiesta accolta solo parzialmente, con il rilascio simbolico di quattro ministri e l’annuncio che a breve sarà formato un nuovo governo.
La richiesta degli Stati Uniti e dell’Onu, ad oggi, restano però quella del ripristino dello status quo precedente. C’è spazio per un compromesso, ma anche per una guerra civile.
Il Paese viene da decenni di feroce instabilità; prima la guerra tra Sud e Nord, terminata col distacco del Sud, poi quella del Darfur, oltre che la dura dittatura di Bashir. Si spera che al suo popolo siano risparmiate altre sofferenze.