Tra Gaza e l'Ucraina: come la gestione del consenso obbliga l'Occidente a condannare Israele
di Alberto Airola*
Superato lo stupore per le improvvise e inaspettate dichiarazioni del Presidente Mattarella, il 2 giugno Festa della Repubblica, sulla necessità di considerare esseri umani i Palestinesi e garantirgli il diritto all'esistenza, è sorta spontanea la domanda: "perché adesso?".
La risposta contempla molti aspetti geopolitici e di posizionamento nei confronti di uno sterminio di civili che va avanti da mesi alla luce del sole, a cui ora si è costretti a guardare. Le azioni militari di Netanyahu e del governo israeliano hanno superato per crudeltà qualsiasi possibilità di rimozione dello sterminio in corso, da parte di Capi di Stato, Istituzioni internazionali, commentatori e intellettuali anche ebraici, ma soprattutto grazie all'opinione pubblica sempre più indignata ed arrabbiata: da un sondaggio Demos su Repubblica il 76% dei cittadini italiani, chiede che Israele si fermi.
A loro si aggiungono numerose associazioni e persino i Presidenti di Regione Puglia, Emilia Romagna ed ora Toscana. La narrazione della difesa dal terrorismo di Hamas è stata sepolta insieme a 20mila bambini assassinati e circa 50mila vittime civili. Determinante ovviamente l'azione politica di Trump che, pur con un doppio gioco, cerca di evitare escalation nella regione Mediorientale.
Il mondo sta affrontando come ben sappiamo, un momento di grande cambiamento: sono crollate certezze, la solidità della NATO in primis con l'abbandono della stabile guida USA, la solitudine dell'Europa in stato di confusione che sprofonda in una crisi tale da attentare alla sua coesione, alla propria sopravvivenza mentre altrove nel mondo si assiste a nuovi costrutti geopolitici che ridisegnano la geografia delle alleanze e dei rapporti tra potenze mondiali.
Tutti questi fattori sono facilmente riconoscibili ma da soli non rispondono in modo esaustivo alla domanda premessa, ossia come sia possibile che solo ora e tutto d'un tratto, l'Italia (e parte dell'UE) abbia finalmente condannato l'operazione israeliana a Gaza e nei Territori occupati.
La risposta che anticipo, detta in due parole, è la seguente: il nostro Paese come molti altri, non possono tenere in piedi due fronti di propaganda contemporaneamente. Partiamo da fatti inconfutabili: alle dichiarazioni di Mattarella e Tajani, a cui si è allineata anche Meloni, non seguono atti concreti: si continuano a vendere armi, nessun embargo o sanzione, nessuna iniziativa concreta per riuscire a garantire l'assistenza medica, umanitaria ai civili oramai ridotti a zero possibilità di esistenza, nessuna iniziativa credibile per l'istituzione di uno Stato Palestinese. Tanti appelli istituzionali ma niente di concreto.
Quindi per adesso possiamo solo pesare delle parole, delle intenzioni forse.
Non per ridurre il merito del Presidente della Repubblica e del Consiglio, nonché dei ministri della Difesa e degli Esteri, nell'essere riusciti ad articolare ed esprimere un pensiero di pace e denuncia delle atrocità sui Gazawi, per adesso azioni concrete non ne abbiamo viste. E di parole dobbiamo quindi occuparci.
Il problema principale che si trova ad affrontare l'Europa e l'Italia è un conflitto ben più vicino e pericoloso quello Russo-Ucraino. Leggendo i principali quotidiani nazionali del 2 Giugno, si nota come, accanto al coro unanime (quasi intonato) di apprezzamento per le dichiarazioni del Presidente, si dia fiato alle trombe per le notizie riguardanti i successi dell'attacco ucraino alla Russia, la distruzione di 41 bombardieri e il rischio costante del fallimento di qualsiasi trattativa o tregua. L'emozione trasmessa è la paura modulata dalla sensazione artificiale di stare dalla parte giusta della Storia e dell'ineluttabilità di un conflitto con la Russia. Questo inasprimento bellicista è fattuale ma soprattutto propagandistico.
Sarebbero numerose le citazioni e gli esempi: dai punti previsti sul documento Readiness 2030 che istituiscono veri e propri programmi di militarizzazione dell'opinione pubblica, della necessità di addomesticare all'idea della guerra la società, dai programmi scolastici, all'"Erasmus per Ufficiali dell'Esercito", a iniziative di training per giovani, malcelati da corsi di sopravvivenza, per insegnare ad avere confidenza con l'uso delle armi ed infine la diffusa volontà di ripristinare leva obbligatoria e bacini di riservisti.
Dalla surreale idea comunicativa europea del kit di sopravvivenza per 72 ore, ne abbiamo fatta di strada. Questa necessità di gestire il consenso per una guerra che viene narrata come inevitabile, ineludibile, che sicuramente si dovrà combattere, è prioritaria nel grande cloud della propaganda in cui da anni siamo immersi. Un concetto di economia del consenso che costringe a dover condannare senza se e senza ma Netanyahu e smettere di impiegare risorse nell'indifendibile campagna israeliana, per investire tutto sulla preparazione dell'opinione pubblica allo scontro con la Russia.
Ecco che allora da una parte si riesce ad acquietare un po' le coscienze degli Europei, sconvolte dai massacri di civili palestinesi, per poterle deviare sull'accettazione della guerra imminente.
È un calcolo consapevole dei limiti di mobilitazione dell'opinione pubblica che non può più sostenere emotivamente e politicamente la sommatoria delle atrocità e delle guerre in corso.
Nessun merito dell'Occidente, nessuna reale presa di coscienza ma solo una subdola manovra di cosmesi retorica, un calcolo cinico per presentarsi con le mani pulite davanti alla nuova emergenza bellicista. Questa è la chiave di lettura del perché adesso e non prima.
Quando le opinioni che sembravano granitiche, si sgretolano nel giro di giorni e quando il potere inizia a parlare il linguaggio dei sentimenti dopo mesi di spietata retorica, dovremmo preoccuparci. Non stanno diventando più umani. Si stanno preparando a chiederci qualcosa di ancora più disumano.
*Ex senatore del M5S