Venezuela. Il precedente Saab: Come la "guerra ai narcos" diventa un pretesto militare
di Geraldina Colotti
Osservando le manovre navali degli Stati Uniti nelle acque dei Caraibi, le provocazioni e le minacce contro il Venezuela bolivariano da parte del secondo governo Trump, torna in mente un episodio analogo, verificatosi durante il primo governo del tycoon. Parliamo del novembre 2020, quando gli Stati uniti schierarono una nave da guerra – l’incrociatore missilistico USS San Jacinto – al largo delle coste di Capo Verde: per evitare – scrisse il New York Times – che “il regime” venezuelano e l’Iran (e anche la Russia, si disse poi) tentassero di liberare Alex Saab, il diplomatico venezuelano sequestrato e torturato perché cercava di spezzare l’assedio economico al Venezuela, importando alimenti e medicine. Si era allora in pieno covid-19, una pandemia globale.
L'amministrazione Trump aveva valutato l'uso della forza militare fin dal momento del sequestro di Saab a Capo Verde, il 12 giugno. L'allora segretario alla Difesa, Mark Esper, si era però opposto, considerandolo un "uso improprio" delle forze armate. La situazione cambiò dopo il licenziamento di Esper da parte di Trump – uno dei tanti licenziamenti al vertice di quella prima amministrazione. Il nuovo segretario alla Difesa, Christopher Miller, approvò immediatamente il dispiegamento militare.
Già allora, gli Stati Uniti avrebbero voluto fare di Alex Saab il grande accusatore di Nicolas Maduro, presentandolo come il capo di una rete narcotrafficante. Ma non gli riuscì per la resistenza del diplomatico a lusinghe e torture, anche dopo che venne estradato illegalmente a Miami a dispetto del diritto internazionale. Saab, attuale ministro per l’Industria e la Produzione nazionale, è stato liberato il 20 dicembre del 2023 a seguito di una forte mobilitazione mondiale guidata dalla moglie Camilla Fabri, che appoggiò l’azione diplomatica del governo bolivariano. Una battaglia cha portò allo scambio di prigionieri tra gli Usa e il Venezuela, che riconsegnò a Biden dieci detenuti statunitensi, coinvolti in attività mercenarie.
Oggi, tornato al governo del paese nel 2024, Trump ha dispiegato le truppe nei Caraibi. Dopo un episodio poco chiaro in cui ha dichiarato di aver “eliminato” (come se fossero birilli) 11 presunti narcotrafficanti che, dalle coste del Venezuela, avrebbero trasportato droga negli Stati uniti, un cacciatorpediniere statunitense ha intercettato, abbordato e trattenuto per circa 8 ore 9 pescatori di tonno venezuelani, nella Zona economica esclusiva del Venezuela. Inoltre, la marina Usa sta ulteriormente mostrando i muscoli, mandando i suoi generali a visitare le basi in Porto Rico, il territorio occupato dagli Usa più vicino al Venezuela, e inviando dieci F-35.
Certo, considerando il genocidio in Palestina e tutto quello che gli Usa permettono al loro cane rabbioso sionista, si è tentati di credere che non vi sia alcun argine al far west globale. Tuttavia, è utile capire con quale foglia di fico questo viene giustificato in un paese come gli Stati Uniti, avvezzi a imporre al resto del mondo la loro “democrazia” come un prodotto perfetto. Il punto d’avvio è stata l’approvazione da parte di Trump di un decreto che equipara alcune reti del narcotraffico (vere o presunte) a organizzazioni terroristiche.
Fra queste, il tycoon ha incluso il fantomatico Cartel de los soles, dichiarando che a dirigerlo sono il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, e l’attuale ministro degli Interni, giustizia e pace, Diosdado Cabello. E portando a 50.000 dollari la taglia sulla testa di Maduro. Storture e arbitri giustificati dal decreto emanato, che permette al governo nordamericano di utilizzare il potere militare in un'ottica di sicurezza nazionale per combattere una minaccia che ritiene diretta agli Stati Uniti: indipendentemente dal luogo in cui la suddetta minaccia si trovi.
La Costituzione statunitense conferisce infatti al presidente, che è anche Comandante in Capo delle Forze Armate, gli ampi poteri per schierare truppe e risorse militari senza una dichiarazione di guerra formale approvata dal Congresso: specialmente quando l'azione è considerata necessaria per proteggere la sicurezza nazionale e gli interessi nordamericani all'estero.
È la “Dottrina Monroe” trasferita dal XIX secolo al XXI, per cui il concetto di supremazia statunitense nell'emisfero occidentale deve continuare a essere un pilastro della politica estera americana. Nel caso di Trump, figure come il segretario di Stato, Marco Rubio, hanno riesumato questa dottrina, giustificando un intervento, anche armato, per contrastare il "caos" e il "disordine" nella regione, provocato anche dal flusso di droga e dall'immigrazione.
In pratica, il dispiegamento di una flotta è un modo per mostrare la forza militare e per effettuare operazioni di intercettazione in acque internazionali, agendo come “deterrente” senza dover lanciare un'invasione su larga scala. È un'azione che viene presentata come una difesa dei confini nordamericani, piuttosto che come un attacco a un paese straniero.
Non che Rex Tillerson e Mike Pompeo che hanno ricoperto il ruolo di Rubio prima di lui non fossero fautori della “massima pressione” per arrivare al sempre sognato “cambio di regime” in Venezuela, e non abbiano organizzato molteplici strategie per arrivarci. Rubio, però, sembra intenzionato a passare dalle parole ai fatti anche con l’intervento militare. Oggi appare come il vero uomo forte dell’amministrazione nordamericana, in quanto segretario di Stato e Consigliere per la sicurezza nazionale. Già all’epoca del primo governo Trump, come senatore repubblicano della Florida, eletto dai rabbiosi potentati anticomunisti, ha avuto una notevole influenza sulla politica estera dell’amministrazione nei confronti dell’America latina.
Per anni ha spinto i governi conservatori contro Venezuela, Cuba e Nicaragua, cercando di rovesciarne i governi definiti “illegittimi”. Ora, senza più freni, ha definito il governo del Nicaragua "nemico dell'umanità", Maduro "un fuggitivo dalla giustizia statunitense", che non è un capo di governo, ma il leader di "un'organizzazione terroristica e criminale che si è impossessata di un territorio nazionale", e ha ricoperto di elogi il salvadoregno Nayib Bukele. Un “leader esemplare” a cui, secondo un documento del governo Usa reso noto dai tribunali, gli Stati uniti avrebbero accettato di pagare 4,76 milioni di dollari per fagli accettare i migranti deportati da Trump e rinchiuderli nei lager come “narcotrafficanti inviati da Maduro”, nonostante la maggioranza di loro non abbia precedenti penali.
Ma quanto è disposto a spendere il governo degli Stati Uniti per un cambio di regime in Venezuela? Un rapporto dell'Ufficio dell'Ispettore Generale del Dipartimento di Stato statunitense mette in discussione la spesa di 10,5 milioni di dollari l'anno per il mantenimento di proprietà e personale a Caracas. L'ispezione che ha portato a queste conclusioni è stata condotta da un ufficio diretto da Francisco Palmieri a Bogotá. Palmieri è un diplomatico di carriera statunitense.
Ha ricoperto il ruolo di Incaricato d'Affari ad interim presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Bogotà, in Colombia, a partire dal 1° giugno 2022. Inoltre, ha guidato l'Unità per gli Affari del Venezuela (VAU), che opera dall'ambasciata statunitense in Colombia. Questa unità ha avuto il compito di gestire le relazioni con il governo del Venezuela e "spianare la strada a una sua rapida sostituzione", secondo quanto riportato dal rapporto dell'Ufficio dell'Ispettore Generale del Dipartimento di Stato statunitense.
Il rapporto ha rivelato che il governo statunitense spende questi miliardi ogni anno per mantenere le sue proprietà in Venezuela, tra cui l'ambasciata di 11 ettari, la residenza dell'ambasciatore e altri tre appartamenti, nonostante la rottura delle relazioni diplomatiche avvenuta nel 2019. Tuttavia, si evidenzia che questa cifra è trascurabile se confrontata con i miliardi di dollari necessari per sostenere il dispiegamento militare nel sud dei Caraibi, ufficialmente destinato a combattere i cartelli del narcotraffico, ma con il Venezuela nel mirino.
Quanto costa schierare otto navi, un sottomarino nucleare e dieci aerei F-35 nei Caraibi? Con l'aiuto di due intelligenze artificiali, basandosi su dati pubblici, il rapporto rileva che Grok, l'IA di X, stima che il costo per dispiegare otto navi, un sottomarino nucleare, dieci aerei F-35 e 4000 Marines per 90 giorni sia di circa 1,73 miliardi di dollari. Questo valore potrebbe aumentare fino a 2 miliardi in caso di imprevisti o diminuire a 1,5 miliardi con il supporto degli alleati. Copilot, l'IA di Microsoft, offre una stima molto più alta, suggerendo che il dispiegamento di tre mesi potrebbe costare tra i 16 e i 22 miliardi di dollari, senza contare gli imprevisti.
Entrambe le stime, pur non essendo ufficiali, superano di gran lunga le spese operative e di personale sostenute per le proprietà diplomatiche a Caracas, evidenziando il vasto investimento militare.
Ma il gioco è di portata globale. Così, anche se alcuni settori del trumpismo, convinti che per fare affari sia meglio non mobilitare apertamente le cannoniere, mostrano insofferenza per le maniere forti di Rubio, questi per ora vanta una solida sintonia con Trump: non tanto sulla Russia, ma sulla necessità di scalzare la Cina dall’emisfero occidentale assolutamente sì, nell’ottica della nuova Dottrina Monroe. Per anni, Rubio ha parlato dell'influenza globale di Pechino come una minaccia alla sicurezza, sebbene ultimamente abbia abbassato i toni perché Trump vorrebbe un vertice con il leader cinese.
Dopo essere diventato Segretario di Stato, Rubio ha iniziato il suo primo viaggio ufficiale con una visita a Panama, dove ha ispezionato il Canale di Panama e ha insistito con i leader panamensi sul tema dello sfruttamento di due porti del canale da parte di un'azienda di Hong Kong. In seguito alle minacce di Trump di prendere il controllo del canale, a marzo l'azienda ha accettato di vendere i porti a un gruppo di investimento guidato dagli Stati uniti, nonostante l'opposizione del governo cinese.
Rubio ha sollevato la questione della presenza cinese anche durante il suo secondo viaggio nella regione, in cui ha visitato Giamaica, Guyana e Suriname a marzo. E ha mostrato grande consonanza con Daniel Noboa, presidente imprenditore dell’Ecuador, dove Rubio conta di riportare le basi militari nordamericane.
Rubio ha anche la missione di rafforzare la posizione delle figure di destra nella regione. Ha fatto sua una causa preferita di Trump: la difesa di Jair Bolsonaro, l'ex presidente conservatore del Brasile, accusato ufficialmente di aver pianificato un colpo di Stato, e ha annunciato che gli Usa avrebbero risposto alla decisione della Corte suprema brasiliana di condannare Bolsonaro a 27 anni di carcere.
Intanto, ha cercato di placare le preoccupazioni di alcuni leader progressisti, come la messicana Claudia Sheinbaum, che temono il ritorno in tromba del potere imperiale Usa. Ma con la Colombia di Petro, che ha annunciato la propria indisponibilità ad appoggiare un’invasione del Venezuela, gli Usa sembrano intenzionati ad agire con minacce e blandizie, fino all’anno prossimo, quando vi saranno le presidenziali.
Negli ultimi mesi, i funzionari di Trump hanno criticato duramente la Colombia per non aver ridotto la coltivazione di coca, la materia prima della cocaina. La produzione è a livelli record, secondo i dati delle Nazioni Unite (ONU). La coltivazione di coca è aumentata del 10% tra il 2022 e il 2023, raggiungendo oltre 252.928 ettari. Nello stesso periodo, la produzione potenziale – la stima dell'ONU sulla quantità massima di cocaina che potrebbe essere prodotta dalle coltivazioni di coca – è aumentata del 53%.
La maggior parte della cocaina colombiana finisce negli Stati Uniti e in Europa. Tuttavia, gli Usa minacciano di non rilasciare alla Colombia una certificazione di buona condotta antidroga, concessa dopo una revisione annuale, i cui risultati dovrebbero essere annunciati il 15 settembre. Lo scopo è determinare se la Colombia stia facendo abbastanza per combattere il traffico di droga. Anche se non si sa cosa deciderà il governo Trump, se la certificazione non venisse approvata, ci potrebbero essere enormi conseguenze.
Tra queste, la sospensione di centinaia di milioni di dollari in aiuti, l'applicazione di sanzioni e restrizioni sui visti per i funzionari del governo colombiano e il danneggiamento di una delle alleanze più strette che Washington ha in America Latina. La Colombia è il principale beneficiario delle spese militari statunitensi in America Latina, e le autorità colombiane avvertono che la perdita della certificazione danneggerebbe entrambi i paesi.
Temi di cui discute la galassia di portali e think tank, che rimanda al fascismo venezuelano e a chi ne tira le fila (tutti in veste di democratici esemplari e paladini dei “diritti umani”, ovviamente). Per accedervi, occorre impegnarsi in un gioco di matrioske non sempre identificabile al primo giro. Monitorarne trame e aspettative, in un momento così complesso e drammatico a livello globale, vale però lo sforzo. E non soltanto a livello giornalistico. Consente di farsi un’idea dell’ampiezza dello scontro in corso, degli interessi contrapposti che lo muovono, e delle tante zone grigie che si sono moltiplicate con la caduta dell’Unione sovietica, opacizzando frontiere geografiche e simboliche.
Si ha la mappatura di un mondo al contrario, dove persino un episodio storico, ripreso dal governo bolivariano per rivendicare oggi la propria sovranità, viene distorto per spingere ad appoggiare l’aggressione armata dell’imperialismo nordamericano e quella dei suoi vassalli dell’Unione europea. Parliamo dell’assedio subito dal Venezuela tra il dicembre 1902 e il febbraio 1903. Allora, il governo di Cipriano Castro venne accerchiato da una flotta congiunta di Inghilterra, Germania e Italia. La coalizione chiedeva il pagamento del debito estero del paese e presunti risarcimenti. Il governo di Cipriano Castro resistette. Per i fascisti venezuelani, però, quell’episodio storico non richiamerebbe il nuovo assedio imperialista a cui viene sottoposto il governo bolivariano, ma “l’assedio interno di una tirannia che tiene soffocata la nazione”. E che, per questo, dev’essere abbattuta dalle cannoniere trumpiste “liberatrici”. Ma quando arrivano? Si chiedono questi figuri dal loro “esilio” dorato, da cui moltiplicano forum e dibattiti, lautamente pagati dai padroni dell’”imperialismo umanitario” che li dirige.
C’è chi dà per imminente una qualche forma di attacco, magari “mirato” a riscuotere la taglia sulla testa di Maduro, e si dedica a interpretare le immagini e le dichiarazioni della Forza Armata Nazionale Bolivariana, chiedendosi da quale bunker vengano rilasciate. Qualcun altro, così riflette: "La realtà è che il Comando Sud non ha una flotta propria e non possono restare lì per un periodo prolungato, possono sparire in qualsiasi momento".
Con la lucidità tipica di chi suole alzare il gomito frequentemente, l’ex candidato presidenziale, Edmundo González Urrutia, dalla Spagna, racconta quanto siano stati proficui i viaggi realizzati finora, in vista di “un governo efficiente che recuperi la stabilità della moneta e i salari”. Come se i governi neoliberisti e guerrafondai dell'Europa, i “patrioti” e fascisti vari che votano risoluzioni contro il Venezuela al Parlamento europeo pensassero al benessere dei settori popolari e non a quello delle combriccole di affaristi che rappresentano.
E, comunque, tutto questo ha come premessa la caduta del governo bolivariano. Il che, dice quotidianamente il popolo venezuelano, non è affatto dato. E perciò, Urrutia piagnucola: "Deve succedere qualcosa, perché un paese non può essere in bilico in una situazione come quella che abbiamo, quattromila o seimila effettivi delle forze armate degli Stati Uniti acquartierati lì, in un'isola vicino al Venezuela, quattro navi da guerra, aerei, insomma, F-35, cioè, tutto questo è un movimento molto, molto importante, quindi qualcosa deve succedere. Non c'è dubbio".