Il "cessate il fuoco" è nudo
535
di Paolo Desogus*
Il così detto “cessate il fuoco” a Gaza non ha messo fine ai massacri e al sistema di repressione disumana contro i palestinesi. Non si contano infatti raid, i morti e le vessazioni contro la popolazione inerme.
Il cessate il fuoco non ha del resto a che fare con il desiderio di pace. È stato usato dagli USA per togliere le castagne dal fuoco al governo israeliano, da troppo tempo in preda al delirio genocidario e a una protervia esasperata che ha spinto l’esercito a bombardare uno dei paesi coinvolti nelle trattative, ovvero Quatar, peraltro in affari con gli americani.
L’attacco al Quatar ha allarmato non solo tutto il Medio Oriente ma gli stessi USA, che certo, sono disposti a difendere Israele, ma non fino al punto di mettere in discussione i propri affari con i paesi arabi e la già precaria affidabilità nei rapporti diplomatici.
Il cessate il fuoco imposto da Trump è anche dovuto alla necessità di frenare l’ondata internazionale di protesta che ha attraversato gran parte del globo. A dispetto infatti di quello che racconta la nostra stampa, è ormai abbastanza diffusa l’idea che Israele sia un paese sanguinario irrimediabilmente fondato sul crimine internazionale e sul razzismo.
La questione va per questo vista da un punto di vista più ampio. Il discredito di Israele è tale che l’opinione pubblica occidentale, da tempo sprofondata nel sonno della ragione, di fronte alle immagini dei massacri e della barbarie ha iniziato a risvegliarsi. In Italia abbiamo assistito a un sussulto morale nuovo, che ha lasciato intravedere la possibilità di una ripoliticizzazione della società dopo anni e anni di qualunquismo e di miseria culturale.
Se però c’è una cosa che le agenzie neoliberali non possono tollerare è proprio questo, è il superamento della dimensione morale e preopplitica in favore della ripoliticizzazione della società e della riaffermazione dei soggetti organizzati. Al neoliberismo va benissimo quando in Occidente ci si limita all’indignazione, alle dimostrazioni per i social network o quando sul piano teorico ci si accontenta delle solite fumisterie ribellistiche o di altre mode accademiche che trasformano l’impegno politico in una posa mediatica. Inorridisce quando dall’indignazione di passa all’organizazione e quando dall’estetica si passa al politico.
Non poteva dunque permettere che la causa palestinese potesse trasformarsi nella leva per un risveglio generale dopo il torpore degli ultimi trent’anni. Lo stesso rapporto di Francesca Albanese, capace di mettere in relazione il genocidio con i processi economici e gli interessi delle multinazionali, rischiava di aprire un varco a una più ampia presa di coscienza sulla dialettica interna ai rapporti di forza e all’assetto attuale del capitalismo.
Trump e i governi occidentali non potevano dunque non fermare l’amico Netanyahu. Hanno dovuto farlo attraverso un’operazione di manipolazione mediatica gigantesca. Appena firmata la tregua la stampa infatti ha eliminato dall’agenda le parole Gaza e Palestina e ha ridato spazio ai negazionisti del genocidio e alla campagna vittimistica dei vari Fiano.
Le cose si stanno dunque rimettendo a posto. L’ondata di protesta internazionale si è placata. L’indignazione non ha avuto modo di saldarsi a un progetto politico e le personalità come Francesca Albanese sono state silenziate. Dietro questa nuova copertura il governo di Netanyahu, se sarà più prudente e non si lascerà prendere dagli eccessi come col Qatar, potrà riprendere la sua opera terroristica di distruzione del popolo palestinese.
*Post Facebook dell'8 novembre 2025

1.gif)
