A quale abisso morale siamo giunti?
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In un mondo dominato dall’orrore e dall’assenza di coscienza, la fame e la morte non sembrano più scuotere nessuno. Si organizzano festival del cibo nel cuore delle città ricche, si scattano foto tra risate e vanità, mentre a Gaza i bambini muoiono di fame sotto assedio, nel silenzio vergognoso del mondo.
Che degrado morale ha raggiunto l’umanità? Che schizofrenia è mai questa che ci fa festeggiare, mangiare e divertirci, mentre i corpi denutriti cadono nei campi profughi e sotto le macerie? Non siamo più solo spettatori: siamo complici. Sì, noi, i codardi, gli indifferenti, siamo quelli che hanno permesso che questa fame diventasse una condanna a morte, che questa ingiustizia diventasse una normalità.
Abbiamo fallito in ogni prova morale. Non abbiamo alzato la voce quando dovevamo, non ci siamo mossi quando era urgente farlo. Con il nostro silenzio, con il nostro tradimento, con il nostro abbandono delle piazze — quelle stesse piazze che un tempo avevano la forza di spezzare gli equilibri — siamo diventati parte del crimine.
La tragedia di Gaza, come tutte le tragedie umanitarie, non accade nel vuoto. Avviene sotto regimi criminali e sotto un silenzio internazionale complice, sì, ma anche sotto la nostra rinuncia collettiva alla lotta, sotto il nostro abbandono della speranza nel cambiamento, sotto la nostra fuga dai luoghi del confronto.
Abbiamo lasciato le piazze, quelle piazze che in passato avevano il potere di creare pressione, di imporre trasformazioni, di rovesciare il tavolo. Le abbiamo abbandonate dopo averci convinto che non servivano più, o forse perché eravamo stanchi. Ma la stanchezza non giustifica l’abbandono. E non ci libera dalla responsabilità.
Per questo, non basta piangere i morti di fame, né condividere un post o recitare una preghiera. Dobbiamo affrontare la verità: li abbiamo traditi. E ciò che serve oggi non è una reazione emotiva passeggera, ma un ritorno autentico alla resistenza, alla posizione etica, all’azione concreta.
Perché la giustizia non trionfa da sola. Ha bisogno di chi la difenda, di chi sia disposto a pagare un prezzo per essa, di chi si rifiuti di vivere in una pace falsa mentre altri vengono sterminati dalla fame.
Che degrado morale ha raggiunto l’umanità? Che schizofrenia è mai questa che ci fa festeggiare, mangiare e divertirci, mentre i corpi denutriti cadono nei campi profughi e sotto le macerie? Non siamo più solo spettatori: siamo complici. Sì, noi, i codardi, gli indifferenti, siamo quelli che hanno permesso che questa fame diventasse una condanna a morte, che questa ingiustizia diventasse una normalità.
Abbiamo fallito in ogni prova morale. Non abbiamo alzato la voce quando dovevamo, non ci siamo mossi quando era urgente farlo. Con il nostro silenzio, con il nostro tradimento, con il nostro abbandono delle piazze — quelle stesse piazze che un tempo avevano la forza di spezzare gli equilibri — siamo diventati parte del crimine.
La tragedia di Gaza, come tutte le tragedie umanitarie, non accade nel vuoto. Avviene sotto regimi criminali e sotto un silenzio internazionale complice, sì, ma anche sotto la nostra rinuncia collettiva alla lotta, sotto il nostro abbandono della speranza nel cambiamento, sotto la nostra fuga dai luoghi del confronto.
Abbiamo lasciato le piazze, quelle piazze che in passato avevano il potere di creare pressione, di imporre trasformazioni, di rovesciare il tavolo. Le abbiamo abbandonate dopo averci convinto che non servivano più, o forse perché eravamo stanchi. Ma la stanchezza non giustifica l’abbandono. E non ci libera dalla responsabilità.
Per questo, non basta piangere i morti di fame, né condividere un post o recitare una preghiera. Dobbiamo affrontare la verità: li abbiamo traditi. E ciò che serve oggi non è una reazione emotiva passeggera, ma un ritorno autentico alla resistenza, alla posizione etica, all’azione concreta.
Perché la giustizia non trionfa da sola. Ha bisogno di chi la difenda, di chi sia disposto a pagare un prezzo per essa, di chi si rifiuti di vivere in una pace falsa mentre altri vengono sterminati dalla fame.
Un palestinese da Amman