I 5 frame del vertice in Alaska: cosa hanno (veramente) comunicato Putin e Trump

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I 5 frame del vertice in Alaska: cosa hanno (veramente) comunicato Putin e Trump


di Maylyn Lopez

 
Il summit di Anchorage del 15 agosto 2025 tra Donald Trump e Vladimir Putin non passerà alla storia per ciò che è stato deciso, ma per ciò che è stato comunicato. Nessun accordo sul conflitto in Ucraina e nessuna roadmap concreta; eppure, la potenza scenica e lo slogan “Pursuing Peace” ha trasformato un vertice politico in uno scenario di simboli e gesti studiatissimi. 
 
Se la sostanza è mancata, la comunicazione è stata straordinariamente potente. Scenografie opulente, stretta di mano amichevole e frasi vaghe. L’analisi del linguaggio, il frame e la gestualità mostra quanto la comunicazione non sia mai neutra: è dirompente, crea significati e risultati.
 
Il summit di Anchorage è uno esempio emblematico di come la politica contemporanea funzioni come teatro simbolico. Come ricorda il teorico dell'analisi critica del discorso, Teun van Dijk, il linguaggio non è mai neutro: incornicia, legittima e orienta percezioni. La lezione dell’Alaska 2025 è chiara: oggi la geopolitica non si gioca solo sul terreno militare o diplomatico, ma principalmente su quello della percezione, amplificata dai media e dai social network.


I Frame del Vertice

 
Queste le principali "cornici" impiegate durante il Vertice:

Dear neighbor”, “Pursuing Peace”: Putin utilizza riferimenti storici e geografia condivisa per trasformare la percezione del conflitto da scontro a dialogo tra vicini—attenuando minaccia e conflitto.

“No deal until there’s a deal”: Trump adotta un frame imprenditoriale rafforzando la narrativa della gestione pragmatica e controllata.

Contrapposizione pace/sicurezza: Trump evoca la pace, Putin insiste sulle sue esigenze di sicurezza - diplomazia che coesiste, ma con visioni diverse.
Ambiguità voluta: termini come “progress”, “understanding” suggeriscono apertura, senza però impegni reali - strategia per rimanere flessibili e controllare la narrativa.

Delega delle responsabilità: con la frase “It’s ultimately up to Zelensky”, Trump trasferisce il peso delle conseguenze su Kiev, rafforzando la propria immagine mediatica.

 “Vicini”: Putin apre con “dear neighbor”, richiami a Bering, eredità russo-americana in Alaska. Sposta la scena da “nemici geopolitici” a “vicini con storia comune”. È un re-framing che abbassa la minaccia e legittima il dialogo. 
 
Come spiega lo studioso Paul Watzlawick e la Scuola di Palo Alto, del resto, nel campo della percezione non si può non comunicare. E in questo caso, anche l’ambiguità è un messaggio. Per Erving Goffman, la politica è performance e in questo vertice entrambi i leader hanno recitato ruoli precisi davanti a un pubblico globale.


I tre effetti percettivi


In questo senso, l’incontro tra Trump e Putin ha avuto tre effetti percettivi principali:
 
1. Dal punto di vista degli USA: Donald Trump come “l’unico capace di fermare la guerra”, anche senza risultati immediati. Trump ha interesse a presentarsi come leader capace di chiudere la guerra, ma senza assumere responsabilità immediate che potrebbero danneggiarlo politicamente. La sua priorità è interna: rafforzare la narrativa di “presidente-negoziatore”. Trump ha incarnato una leadership transazionale e carismatica, centrata sulla propria immagine di “negoziatore”, giocando con la tecnica del rinvio incrementale, creando l’aspettativa di “un prossimo incontro a Mosca”. Si tratta, in fondo, di leadership performativa: il summit è stato costruito per mostrare autorità, non per produrre risultati. 

2. Dal punto di vista della Russia: Vladimir Putin come leader rispettato, accolto su suolo americano. Ha esercitato una leadership autorevole-simbolica, mostrando fermezza e continuità. Il presidente russo ha agito seguendo lo schema della “asimmetria strategica” con un approccio simile alla cosiddetta negoziazione distributiva (Fisher & Ury, 1981), enfatizzando le sue priorità senza concedere aperture, mantenendo il massimo del potere contrattuale. Trump attraverso il “Test del consenso” si è presentato come mediatore, cercando di far percepire un processo in corso (“ci rivedremo a Mosca”), tipico della negoziazione incrementale, che valorizza anche i micro-progressi comunicativi.

3. A livello Internazionale: scetticismo e cinismo, rafforzato dall’assenza di risultati e dalla marginalità di attori come l’Unione Europea.


La tecnica dell'ancoraggio
 
Entrambi i leader hanno fissato attraverso la tecnica dell’ancoraggio i termini del dibattito (pace vs sicurezza), impedendo che l’altro imponesse un’agenda alternativa. E la scelta del luogo: l’Alaska come territorio simbolico, ex russo e parte degli USA, è stata usata come leva scenografica per legittimare la simmetria.
 
La guerra continua; ma la battaglia del racconto ha già ridisegnato il campo negoziale. Il vero risultato non è politico, ma percettivo: preparare l’opinione pubblica a un futuro negoziato senza l’Unione Europea e con l’Ucraina in un ruolo declassato. E l’Atlantic Council nel commentare il vertice ha indicato lo scenario più realistico: nessuna svolta, ma un grande ritorno d’immagine per Putin.

La frase di Trump – “It’s ultimately up to Zelensky” – sposta la responsabilità sull’Ucraina, preservando il proprio ruolo di mediatore. È una tecnica negoziale nota come "displacement": trasferire l’onere sugli assenti, mantenendo intatta la propria immagine. Trump ha usato il frame del deal-making (“No deal until there’s a deal”), presentandosi come l’unico capace di trattare. 
 
Time e The Guardian dipingono un quadro evidente: Putin ha guadagnato reputazione internazionale, rafforzando il suo status di leader forte e in equilibrio con Washington. Trump, al contrario, ha mostrato limiti diplomatici, presentandosi più come intrattenitore che come statista in grado di chiudere accordi.  Come ha scritto Susan Sontag, “chi controlla le immagini controlla anche la memoria collettiva”. Anchorage ne è stata la dimostrazione: un summit senza accordi, ma con un enorme impatto simbolico, che sta ridisegnando gli equilibri globali molto più di un trattato formale. La spettacolarizzazione è anche un risultato.

Maylyn  López

Maylyn López

Docente universitaria. 20 anni di esperienza nell’ambito diplomatico e multilaterale. Specialista in Comunicazione Strategica e analisi critica del discorso. Giornalista, mediatrice internazionale. Certificazione in PNL e leadership. Responsabile delle Relazioni Internazionali e Coordinatrice della BRNN “Belt and Road News Network” per l'AD. Fondatrice di LeaderSHE. 
info@maylynlopez.com

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