Bruciamo le città, diamo fuoco al mondo!

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Bruciamo le città, diamo fuoco al mondo!


Di Leo Essen



È passato mezzo secolo da quando nelle strade e nelle università si tifava per il rifiuto del lavoro. Non si trattava di un misero slogan contro il capitalismo. Dietro di esso operava un desiderio più potente, che spingeva per un ritorno indietro, verso uno stadio di incorrotta unione.

Più che un viaggio, era un salto mortale dalle miserie e dai patemi di una vita circoscritta in un corpo, verso un infinito di pace, amore e libertà. A concedere il lasciapassare per questo regno adamitico era stato Herbert Marcuse, con i suoi libri «Eros e Civiltà» e, soprattutto, «L’uomo a una dimensione». È in quest'ultimo libro (7 edizioni della traduzione italiana in meno di un anno) che Marcuse resuscita un frammento dei Lineamenti di Marx, facendolo diventare il motto per una schiatta di studenti perdigiorno. 

Il motto, così come è presentato da Marcuse - riassumo alla buona - preconizza un futuro in cui la ricchezza, tutto il ben di Dio che vediamo intorno a noi, dalle arance ai pomodori, dalle automobili ai telefonini, non sarà più prodotta dalle mani dei lavoratori, ma sarà prodotta da macchine. Nel futuro ci saranno macchine che produrranno ogni cosa, e ci saranno altre macchine (intelligenti) che produrranno le macchine che produrranno le cose. Il tempo di latenza sarà ridotto a zero, realizzando quella coincidenza tra volontà generale e volontà di tutti, che è il sale della vera democrazia – parola di McLuhan. 

Ciò che si credeva che la tecnologia potesse eliminare - ciò che si odiava visceralmente - non era solo il lavoro manuale, era il corpo effettivo. 

Il corpo ha dei limiti - è finito. È gettato in un contesto dato, la direzione che potrà prendere, così come la valenza che potrà esprimere, saranno sempre determinate da ciò che lo circonda, dunque, da ciò che esso non è. Il valore di un pezzo su una scacchiera – il pedone – varia a seconda della posizione che esso occupa e dalla posizione che occupano tutti gli altri pezzi. Il pedone avrà sempre la stessa faccia, a cambiare sarà il suo valore. Non mi dilungo su questo tema, e nemmeno sui punti di forte contatto  tra questo discorso, la teoria del circuito e la semiologia strutturalista. Ciò che in un corpo finito dà davvero fastidio è proprio quell’essere rintuzzato da altri copri, quello sporcarsi le mani con le cose pratiche, quell’essere limitato nella propria sovrana libertà. Che questo ostacolo si chiami lavoro, si chiami potere, si chiami polizia, si chiami istituzione totale, si chiami Facebook, eccetera, non conta; ciò che conta è la liberazione dal corpo effettivo - e non del corpo (anche se la differenza è talmente sottile che mi sfugge). 

L’infinito, invece, è l’idea (cos’altro potrebbe essere per queste anime belle?) di autonomia e liberazione da ogni impiccio e ostacolo che si frappone tra noi e il nostro volere o desiderio. Non c’è libertà degna di questo nome che non si concluda col terrore e le teste mozzate o con un Seppuku - alla Mishima. Poiché anche la scissione tra sé e il proprio desiderio procura una sofferenza che si elimina narcisisticamente.

Di tutto ciò parla l’ultimo libro del professor Riccardo Bellofiore: Smith Ricardo Marx Sraffa, Rosenberg & Sellier edizioni. Un libro che vale la pena leggere, non solo perché produce una descrizione (fondata) di questo narcisismo, ma anche perché, nelle sue 400 pagine, affronta una serie di altri temi e autori, oltre quelli indicati nel titolo, con un approccio originale. Non mancano le sentenze pesanti, contro chi, per esempio, estremizzando Marx, lo ha ridotto a una caricatura. O contro chi ha arruolato Marx alla causa del rifiuto del lavoro, interpretando la rivoluzione come un salto nell’assoluto - salto, dice Bellofiore, dal finito all’infinito, da un lavoro condizionato a un’attività incondizionata. 

Tra questi amanti del salto Bellofiore annovera il leader del post-operaismo, apologeta del sabotaggio e dell’esproprio proletario - proletario per modo di dire.

Il tema del salto ritorna alla fine del libro, a segnare, forse, la conclusione di un tragitto, o di una resa dei conti con il post-operaismo italiano. Ma questa è una mia impressione, che rimarrà tale, perché il libro che porta il nome di Bellofiore, come ogni libro, si presta (sicuramente entro centri limiti) a dire anche ciò che il suo autore non aveva intenzione di dire. D’altronde, ogni libro, mi viene da dire ogni singola copia, nel suo corpo a corpo col lettore, deve difendersi da sé, senza chiamare in soccorso l’autore. E poi, anche se questa difesa fosse possibile, sarebbe impraticabile. Nessuno crede più alla favola romantica di un libro frutto di un solo autore. 

Il debito contratto dai pensatori Post verso Marcuse – un Marcuse sul quale si allunga l’ombra di Keynes – verrebbe pagato direttamente al neo-liberismo. Seguendo Marcuse, gli autori Post-eccetera rimangono intrappolati nel pensiero borghese, come vi rimane intrappolata buona parte della sinistra radicale. 

Non si tratta di novità assolute. Nel 1979, da una posizione che allora apparve stramba, di narcisismo aveva parlato Christopher Lasch. Aveva anche dipinto i post-qualcosa come promotori di un individualismo radicale. Bellofiore - qui sta il pregio del libro - aggiunge alla sociologia americana una buona dose di filosofia continentale e classica - anche se glissa sulla cosiddetta French Theory, oggi non più di moda e trattata come un cane morto.

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