Business is business. Gli affari russi di Poroshenko e quelli degli oligarchi russi negli Usa

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"Ancora una volta, che sia a ovest o a est del Dnepr, pecunia non olet."

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di Fabrizio Poggi 


 

Colleghi, amici, mogli o mariti, avventori di bar, postini, sorpresi a fischiettare il motivo di una qualsiasi aria russa, vicini d'appartamento uditi seguire un canale TV russo: nell'Ucraina golpista, chiunque può ritrovarsi in un batter d'occhio tra le mura di un commissariato. Succede anche a cantanti più o meno famosi: un motivetto copiato su “VKontakt” (l'equivalente russo di feisbuc) e i solerti attivisti di Mirotvorets sono pronti a fare il loro dovere nella lotta ai “fiancheggiatori dei terroristi”, laddove “terrorista” è ovviamente qualsiasi cittadino delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk. Il marito è andato per affari nel Donbass? La moglie può ricorrere in giudizio e il tribunale priva l'uomo dei diritti di paternità sul figlio. La polizia è tenuta, in base alla “legge”, a mettere in guardina il sospetto di “separatismo” e di “posizioni antiucraine”, accusato di essere “agente del Cremlino”, anche su semplice soffiata del barista.
 

Questo succede oggi, in Ucraina, ai normali ucraini. Ma ecco che anche il golpista N° 1, Petro Porošenko, si ritrova tutt'a un tratto a esser accusato di connivenza col nemico. Nei giorni scorsi il canale d'opposizione georgiano “Rustavi-2” (manco a dirlo, vicino al sempiterno Mikhail Saakašvili) avrebbe reso nota una dichiarazione scritta di Porošenko, risalente al 2007, in cui l'allora deputato della Rada e attuale presidente ucraino, per poter entrare in Russia, si sarebbe impegnato, “nel periodo di permanenza sul territorio della Federazione Russa” a “osservare rigorosamente la legislazione vigente, non prender parte ad attività dirette contro gli interessi della FR”. In un'altra dichiarazione, Porošenko assicura il direttore del FSB russo di non aver “alcun rapporto con la campagna antirussa del presidente Juš?enko. Nell'interesse della Russia, mi occupo di attrarre importanti investimenti negli stabilimenti “Roshen” (regione di Lipetsk) e “Bogdan” (regione di Nižnij Novgorod)”. Stabilimenti di sua proprietà.

Immediatamente dopo lo “scoop” della TV georgiana, alcuni deputati della Rada hanno dichiarato di voler chiedere al SBU, l'intelligence ucraina, di far verificare a “esperti europei” la calligrafia delle dichiarazioni ora rese pubbliche, accertare quali varchi di frontiera avrebbe attraversato Porošenko, a quali scopi e con chi avrebbe avuto contatti; quindi, se del caso, metterlo in stato di accusa per “tradimento della patria”.
 

L'amministrazione presidenziale ha naturalmente smentito l'autenticità delle dichiarazioni, qualificandole come carte passate sottobanco “al canale georgiano dai servizi segreti russi”. Ma l'accorto Saakašvili non si è certo lasciato sfuggire la ghiotta occasione di assestare un ulteriore colpo al suo ex “padrino”, mettendo sì in dubbio l'autenticità dei documenti, non mancando però di lodare il “Rustavi-2”, da lui definito “il miglior canale della regione, con giornalisti molto professionali che, di regola, verificano le fonti. Il fatto che l'amministrazione presidenziale, alle tre di notte, abbia ufficialmente smentito l'informazione, dice molto sul panico di via Bankova” (la via su cui ha sede l'amministrazione presidenziale). Alla sua maniera, l'ex presidente yankee della Georgia, ha dato un colpetto al cerchio e uno ben più massiccio alla botte: “non sono un grafologo per raffrontare la calligrafia” ha detto; “eppure, anche se considero la presidenza di Porošenko in questa fase già molto dannosa per il paese, non posso credere che sia stato così stupido da lasciare in giro un tale documento ufficiale sulla cooperazione con il FSB. Sappiamo che mantiene intensi contatti ufficiosi con rappresentanti di uno stato ostile. So che il 29 dicembre, al telefono con Putin, ha chiesto collaborazione contro di me”.
 

D'altronde, ricorda Russkaja Vesna, il “veterano di due accerchiamenti”, il neonazista Semen Semen?enko, ha rincarato la dose, tornando sulla versione di un Porošenko “da tempo reclutato dai russi” e, in attesa del confronto calligrafico, ricorda i fatti che a suo dire proverebbero il tradimento, compresi alcuni passi politici di Kiev e le sonore sconfitte inflitte dalle milizie delle Repubbliche popolari all'esercito ucraino e ai battaglio neonazisti, tra cui: “assenza di legge marziale e mobilitazione generale per respingere l'aggressione; Ilovajsk, Minsk-1, Debaltsevo, Minsk-2, aumento degli investimenti russi in Ucraina, campagna per liquidare i volontari, corruzione nel paese che, secondo l'opinione pubblica ucraina e il Senato USA, è l'arma principale della Russia”.


Al “reclutamento russo” di Porošenko, sull'altro versante della frontiera, fa riscontro da un po' di tempo la voce, nemmeno tanto bisbigliata, che ci sarebbe una fetta, forse non consistente numericamente, ma di certo abbastanza potente, di russi che lavorerebbero per l'occidente. Si tratterebbe di tutti quei miliardari della cosiddetta “cerchia putiniana” che, pur di sottrarsi alle sanzioni personali USA e UE che dovrebbero essere rinnovate in questi giorni, starebbero prendendo le distanze dal Cremlino e condurrebbero colloqui col Ministero delle finanze e il Dipartimento di stato USA per salvare i propri interessi. Ma, i più maligni, tra cui da tempo vengono annoverati anche i comunisti russi, parlano non solo di oligarchi e faccendieri, bensì della stessa Banca centrale russa, che continuerebbe a mantenere il 77% delle proprie attività oltreconfine e, in particolare, proprio in USA. Le riserve valutarie in oro russe, scrive topwar.ru, assommano a 417 miliardi di dollari e la Banca centrale sta incrementando gli investimenti in obbligazioni del debito di paesi occidentali, tra cui USA, Germania, Francia e Gran Bretagna, alimentando in tal modo “i più russofobi tra i partner occidentali”.
 

Dmitrij Rodionov, basandosi su informazioni di Bloomberg, scrive su Svobodnaja Pressa che “biznessmeny” e alti funzionari russi, potenzialmente presenti nella lista per le sanzioni (secondo Kommersant, si tratterebbe di una cinquantina di nomi) avrebbero già inviato in segreto propri rappresentanti a Washington, per consultazioni e alcuni avrebbero anche già iniziato a vendere le proprie attività estere, prima dell'arrivo delle sanzioni. A inizio anno, sempre Svobodnaja Pressa aveva scritto che Washington potrebbe cercare di metter in piedi una quinta colonna di oligarchi russi, “fedeli all'America”. Se fosse davvero così, conclude Dmitrij Rodionov, sembrerebbe che i tentativi di Washington siano stati coronati da successo.
 

Ancora una volta, che sia a ovest o a est del Dnepr, pecunia non olet. 

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