C’È UN GENOCIDIO A GAZA – Risposta pubblica a Silvana De Mari (di ROCCO Cantautore)
Riceviamo e pubblichiamo volentieri
Il giorno 5 maggio 2025, sul quotidiano La Verità, la dottoressa Silvana De Mari ha pubblicato un articolo nel quale affermava che «non esiste alcun genocidio a Gaza», attaccando tra l’altro chiunque osi denunciare la tragedia in corso, tra cui anche il sottoscritto, definito in tono sprezzante, nel più classico artificio retorico dell’attacco ad hominem, un «miserabile cantautore mai sentito nominare da nessuno».
Mi permetto, quindi, una risposta pubblica. Non per amor di polemica, ma per dovere civico, di informazione e, se mi è concesso, di verità.
Una breve premessa personale
Il 3 febbraio 2023, la stessa Silvana De Mari mi ha intervistato in diretta sulla sua piattaforma La brigata per la difesa dell’ovvio.
Quando perciò oggi afferma di non sapere chi sono e rifiuta un confronto pubblico dicendo che non mi conosce, sta negando un fatto documentabile.
Peccato: io quel confronto l’avrei accettato volentieri. Non per “vincere un dibattito”, ma per confrontare visioni del mondo. Lei ha preferito parlare dall’alto di una rubrica su un giornale nazionale, citandomi senza citarmi, e negandomi la possibilità di risponderle in diretta.
Ma oggi non scrivo solo da cantautore. Scrivo da canta-untore. Da essere umano. E scrivo in nome di centinaia di persone che privatamente o sotto i miei post hanno espresso la loro indignazione per quelle parole.
Non è un'opinione: è un genocidio
Quello che sta accadendo a Gaza è definito genocidio non da me, non da un movimento ideologico (quale invece è il sionismo, cui la De Mari mostra incondizionato sostegno), ma da:
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la Corte Internazionale di Giustizia (che ha riconosciuto la plausibilità dell'accusa);
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i relatori speciali dell’ONU, tra cui Francesca Albanese (“Anatomia di un genocidio”);
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Human Rights Watch e Amnesty International;
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il Lemkin Institute for Genocide Prevention e Genocide Watch;
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giuristi, storici, accademici, e persino sopravvissuti dell'Olocausto.
Tutti convergono su un punto: a Gaza si sta commettendo un crimine di distruzione sistematica. Distruzione di vite (oltre 50.000 civili morti, secondo fonti incrociate, di cui oltre 18.000 bambini), di infrastrutture vitali, di intere famiglie. Si spara su bambini, su ospedali, su giornalisti. E chi sopravvive, sopravvive in condizioni disumane.
Lo ammettono gli stessi israeliani. Un articolo apparso il 30 gennaio 2025 sul quotidiano israeliano Haaretz, scritto dagli storici israeliani Amos Goldberg e Daniel Blatman, si intitola: «There’s No Auschwitz In Gaza. Bus It’s Still A Genocide» (Non c’è Auschwitz a Gaza. Ma è comunque un Genocidio).
La demografia non assolve il crimine
Sostenere, come fa la De Mari, che non ci sia genocidio perché la popolazione di Gaza è cresciuta negli ultimi decenni è aberrante dal punto di vista logico.
È come dire che gli armeni non hanno subito un genocidio perché oggi esistono ancora. O che gli afroamericani non sono mai stati oppressi perché la loro popolazione è aumentata nonostante schiavitù, segregazione e sterilizzazioni forzate. La demografia non assolve i crimini. Il genocidio si manifesta prima di tutto nelle intenzioni.
L’articolo II della Convenzione ONU sul genocidio (1948), scritto con il contributo di Raphael Lemkin che ha coniato il termine stesso “genocidio”, specifica chiaramente che:
«Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
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(a) uccisione di membri del gruppo;
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(b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
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(c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
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(d) misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo;
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(e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.»
Su queste basi, ciò che sta accadendo a Gaza è inconfutabilmente un genocidio.
«Se Israele avesse voluto...»
La De Mari scrive che Israele, se avesse voluto, avrebbe potuto radere al suolo Gaza come Dresda, Belgrado o Baghdad. Questo è un argomento mafioso: “potevo fare peggio, quindi non lamentarti”.
Chi bombarda ospedali, scuole e rifugi ONU è già nel crimine.
Ma la distruzione di oltre il 70% delle infrastrutture, i morti civili, la fame come arma (denunciata dall’ONU), l’uso di armi proibite, come il fosforo bianco, la negazione dell’ingresso di aiuti umanitari tra cui anche farmaci indispensabili, tutto questo non basta alla De Mari per indignarsi.
Le basta, invece, il fatto che qualcuno canti.
La potenza delle parole
La De Mari inizia così il suo articolo:
«“Basta la parola”. Vecchio slogan pubblicitario che racchiude una verità neurobiologica, la potenza evocativa delle parole. Genocidio non è una parola con cui scherzare.»
Sulla potenza evocativa delle parole, la De Mari ha ragione. Ma a insegnarcelo sono proprio i sionisti e le classi dirigenti israeliane.
Una delle parole che infatti hanno imparato a manipolare e utilizzare per silenziare il dissenso o anche semplici critiche nei confronti delle politiche criminali dei governi dei colonizzatori israeliani è “antisemita”. Ce lo dice chiaro e tondo una figura al di sopra di ogni sospetto, l’israeliana Shulamit Aloni, ministro dell’educazione dal 1992 al 1993 e ministro delle comunicazioni e della scienza e della cultura fino al 1996. Nel 2002 disse in una intervista: «è un trucco che abbiamo sempre usato. Quando in Europa qualcuno critica Israele allora noi tiriamo fuori l’Olocausto. Quando in questo paese [USA] le persone criticano Israele, allora sono antisemiti. […] non sono pronti a ricevere critiche ed è molto facile incolpare chi critica certe azioni del governo israeliano come antisemita e tirare fuori l’Olocausto e la sofferenza del popolo ebraico e questo giustifica tutto ciò che facciamo ai palestinesi.»
La De Mari ha imparato bene la lezione.
In più passaggi del suo articolo accusa infatti chi denuncia il genocidio di diffondere odio contro gli ebrei.
Io non ho mai parlato contro il popolo ebraico.
Denuncio piuttosto le azioni del governo israeliano e l’ideologia sionista che considero criminale e un cancro dell’umanità, alla stregua di altre ideologie.
Se un popolo sopravvissuto alla Shoah oggi diventa strumento di una nuova distruzione, il dovere della memoria è anche denunciare. Altrimenti, come ha detto Avraham Burg, ex presidente della Knesset, anch’egli israeliano:
«Usare la Shoah per giustificare ogni cosa è un tradimento della Shoah stessa.»
Oltre a lui, molti altri ebrei coraggiosi hanno denunciato questa strumentalizzazione, tra i quali Norman Finkelstein, Tony Judt, Amira Hass, Gideon Levy nonché associazioni ebraiche come Jewish Voice for Peace e Breaking the Silence.
Un genocidio annunciato
Il genocidio non inizia il 7 ottobre 2023. È l’ultimo capitolo di una storia molto più antica.
Nel 1895, Theodor Herzl, padre del sionismo politico, scriveva nel suo diario: «Dobbiamo espellere gli arabi e prendere la loro terra.» (Notare l’ammissione del reato contenuta implicitamente nell’espressione “la loro terra”, ergo: la terra è dei palestinesi e occorre rubarla).
Nel 1940, Joseph Weitz, direttore del Dipartimento delle terre del Fondo Nazionale Ebraico, fu ancora più esplicito: «Deve essere chiaro che nel Paese non c’è spazio per entrambi i popoli. Se gli arabi se ne vanno, il Paese diventerà ampio e spazioso per noi. L’unica soluzione è Eretz Israel senza arabi. Qui non c’è spazio per i compromessi. Non c’è altro modo che trasferire gli arabi da qui ai Paesi vicini, Non deve essere lasciato un solo villaggio, nessuna tribù. Non c’è altra soluzione.»
Queste non sono opinioni marginali. Sono le fondamenta ideologiche su cui si è costruito lo Stato d’Israele: uno Stato etnico fondato sull’espulsione, l’appropriazione indebita e l’eliminazione graduale dell’altro.
Nel 1948, con il Piano Dalet, l’Haganah (la milizia che diventerà poi l’IDF) mise nero su bianco una strategia militare che prevedeva la distruzione sistematica dei villaggi palestinesi e l’espulsione forzata dei loro abitanti. Questo piano sfociò nella Nakba: oltre 750.000 palestinesi espulsi o costretti alla fuga, più di 500 villaggi cancellati dalle mappe.
Tutto ciò è documentato oggi anche dai cosiddetti “nuovi storici israeliani”, come Ilan Pappé, Benny Morris, Tom Segev, Avi Shlaim.
A riprova che il piano procede in quella direzione, nel 2023 un documento trapelato dal Ministero dell’Intelligence israeliano proponeva il trasferimento forzato di 2,3 milioni di palestinesi nel Sinai.
Dal 7 ottobre 2023:
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Israele ha annesso oltre 5.000 ettari di terra palestinese.
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Ha bombardato oltre 100 strutture sanitarie.
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Ha ucciso più di 170 giornalisti.
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Ha ucciso oltre 18.000 bambini (dati confermati anche dal quotidiano israeliano Haaretz, con buona pace della De Mari che spara numeri a caso).
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Ha sfollato e deportato forzatamente e sistematicamente la popolazione di Gaza da una parte all’altra della Striscia, non risparmiando nessuno: mutilati, malati, anziani, disabili in carrozzina.
E tutto questo mentre la commissione speciale ONU incaricata di studiare il caso ha conchiuso nel rapporto A/79/363 del 20 settembre 2024 che le pratiche di guerra d'Israele «presentano elementi caratteristici del genocidio» e nel marzo 2025, una commissione indipendente dell’ONU ha parlato nuovamente di «atti di genocidio» e di ricorso sistematico da parte delle Forze di Sicurezza Israeliane a violenze sessuali e riproduttive finalizzate a «dominare, opprimere e distruggere la popolazione palestinese».
Il generale israeliano Yair Golan, nel Giorno della Memoria del 2016, dichiarò:
«Se c’è qualcosa che mi spaventa nella memoria dell’Olocausto, è identificare processi orribili che si sono verificati in Europa... e trovare prove della loro esistenza qui in mezzo a noi.»
Non possiamo più far finta di niente.
E dunque: se cantare contro tutto questo fa di me un miserabile, allora preferisco esserlo, piuttosto che restare in silenzio davanti al male.
Io canto. Voi tacete.
In fondo tutto si riduce a questo. Io, che canto contro la guerra, sarei il miserabile. Voi, che negate il genocidio in corso e in diretta streaming mondiale, sareste i difensori della civiltà. Tenetevi pure questa narrazione da pagliacci.
Silvana De Mari ha avuto l’occasione per un confronto. L’ha rifiutato. Ha avuto invece una tribuna da cui attaccare chiunque non si allinei. Io rispondo qui, con le parole, con i fatti, con la musica, con la memoria e con la speranza.
E con un invito: non restate in silenzio. Il silenzio, oggi, è complicità. È collaborazionismo.
Anche un filo d’erba che si rifiuta di piegarsi, nel mezzo del deserto, sta già cambiando il vento.
Questo è il tempo del coraggio. Anche solo per dire: IO NON CI STO.
ROCCO Cantautore