Capaci, geopolitica di un colpo di stato
di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico
Trentatre anni fa, Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta persero la vita in un terrificante attentato che cambiò il volto della Repubblica e deviò il corso delle nostre vite. Ma questo lo scoprimmo trenta anni dopo.
All'epoca, per noi ragazzi delle superiori le cose erano semplici: si trattava del colpo di coda degli uomini della prima Repubblica ormai morente. Eravamo in piena Tangentopoli; ormai avevamo le prove, gli uomini che ci governavano erano ladri, disonesti, corrotti. Le voci sulle collusioni tra gli uomini della Prima Repubblica e la Mafia, poi, erano assordanti. Bastava sfogliare la Repubblica di Scalfari ed era un continuo florilegio di allusioni sulle collusioni della DC siciliana con Cosa Nostra: basti pensare al “Caso Ciancimino” o all'omicidio del plenipotenziario andreottiano Salvo Lima avvenuto poche settimane prima rispetto alla Strage di Capaci. Le cose erano semplici agli occhi di noi ingenui ragazzini: tutto portava verso la DC e verso gli uomini della Prima Repubblica.
Ma come sempre accade, mentre si fanno grandi teoremi, il diavolo, agisce nei dettagli. Negli spazi tra le righe, dove solo chi ha l'occhio vigile può vedere. Chi ha avvisato gli esecutori materiali della strage che quel giorno e a quell'ora Falcone sarebbe rientrato in Sicilia? Chi ha fornito la ragguardevole quantità di esplosivo (circa 500 Kg di due tipi diversi dei quali uno militare) necessaria a far saltare in aria l'autostrada? Come mai nessuno si accorse del lavoro di “minamento” dell'autostrada che presumibilmente si è protratto per giorni?
Domande cruciali che forse, con il tempo, sarebbero emerse, magari anche grazie a qualche commentatore indipendente e onesto. Ma all'epoca a tanti, troppi, tutto appariva chiaro. E tempo per farsi domande non ce n'era. In breve tempo in una strage gemella a quella di Capaci, perse la vita il giudice Borsellino e la sua scorta. E anche qui, i misteri non si contano, a partire dal materiale sparito dalla sua borsa.
I mesi successivi furono una tempesta d'acciaio e fuoco, dove persero la vita decine di persone in stragi (Milano, Firenze e Roma) definite dai commentatori “di stampo politico-mafioso”. Dove logicamente il politico andava inteso come l'estremo e criminale tentativo degli uomini della Prima Repubblica di rimanere attaccati al potere.
Dovevano essere proprio stupidi gli uomini della Prima Repubblica, che realizzavano stragi delegittimandosi ancora di più agli occhi degli italiani. Infatti nel giro di poco tempo furono fatti sgomberare dalle istituzioni. Finalmente i buoni avevano vinto. Quei buoni che ci promettevano la Città di Dio Europea, il Nuovo Giardino dell'Eden da conquistare al costo di qualsiasi sacrificio: dai tagli draconiani al Welfare, alla privatizzazione delle imprese pubbliche e del sistema bancario, alla erosione dei diritti sociali e legati al lavoro. Noi giovani di allora, volevamo l'Europa e la avemmo.
Nel corso degli anni le voci – sempre più insistenti – di una trattativa tra stato e mafia divennero sempre più insistenti fino a quando fu lo stesso Ministro della Giustizia di allora, Giovanni Conso a dichiarare la commissione parlamentare antimafia l’11 novembre del 2010. che nel novembre del 1993 non rinnovò oltre trecento provvedimenti di 41 bis, il carcere duro per detenuti mafiosi con la seguente motivazione che definire illogica è poco: “Ho preso quella decisione in totale autonomia per fermare la minaccia di altre stragi e non ci fu nessuna trattativa”. Come esimio Ministro, non ci fu trattativa ma ci fu comunque un accordo per il quale lei non rinnovò i provvedimenti di 41 bis mentre i mafiosi cessavano la politica stragista? Singolare affermazione che lasciò sbalorditi.
Sbalorditiva fu anche la circostanza (mai del tutto chiarita) emersa anni e anni dopo, secondo la quale il Capo dei Capi Totò Riina, in piena epoca delle stragi politico-mafiose, era dotato di telefono in cella. L'epoca in cui si verifico questa circostanza, era sempre quel fatidico 1993 dove Palazzo Chigi era retto da Amato e Ministro di Grazia e Giustizia era sempre l'Esimio Conso che, per carità, sarà stato all'oscuro di tutto, ma il responsabile delle carceri era sempre lui.
Ma lo Tzunami delle rivelazioni che stanno riscrivendo la storia di quegli anni non colpisce solo la politica di allora ma anche la Magistratura. Clamorose sono le notizie giunte dalla Sicilia dell'iscrizione nel registro degli indagati di due super giudici di allora: il procuratore Pignatone indagato per aver insabbiato il filone di inchiesta “Mafia e Appalti” e l'ex pm del pool antimafia di Palermo Gioacchino Natoli indagato per i reati di favoreggiamento alla mafia e calunnia sempre in relazione alle indagini sul filone “Mafia e Appalti”.
Tutto appare più nebuloso e sfumato rispetto a quegli anni dove eravamo certi di sapere chi erano i buoni e chi i cattivi. Certo le accuse vanno provate ma la sensazione è che in quegli anni in Italia si combatté una battaglia senza esclusione di colpi per la conquista del potere e per indirizzare il paese verso scelte di natura economica, politica e geopolitica.
In altri termini, appare sempre più evidente che in quegli anni andava demolito il vecchio sistema della Prima Repubblica, non più funzionale rispetto alle scelte che si erano fatte a livello internazionale dopo la caduta del Muro di Berlino: gli uomini della Prima Repubblica andavano cacciati dalle istituzioni sia con la strategia giudiziaria (tangentopoli) che con lo strumento cruento della destabilizzazione stragista. Non possiamo escludere che molti (anche tra gli inquisiti di oggi) fossero inconsapevoli pedine di un gioco più grande di loro, visibile oggi ma incomprensibile in quei giorni, se non ad una élite seduta nell'empireo degli intoccabili ed innominabili che aveva deciso di portare l'Italia in Europa e soprattutto di farle cambiare volto: dal sistema economico misto pubblico-privato a quello ultra-liberista degli ultimi trenta anni.