Da bambina gli sterminarono la famiglia, la storia di Shahira: Israele ha distrutto i suoi sogni, non le sue speranze
di Paola Di Lullo
Beirut, 18 settembre 2017
Shahira è una donna forte, trasuda resistenza, chiede giustizia, non intende rassegnarsi né arretrare. Israele ha distrutto i suoi sogni, non le sue speranze. Shahira vive nel campo profughi di Chatila. 32 anni fa, le falangi cristiane libanesi, con il supporto dell'esercito israeliano, hanno sterminato la sua famiglia: padre, madre, marito, sorella incinta, cognato, cugina incinta. Sul corpo della cugina di sono accaniti con particolare ferocia, sventrandolo fino a far venire fuori il bambino. 2 giorni e due notti di mattanza con il campo illuminato a giorno perché si compisse il massacro.


I sopravvissuti, tra cui Shahira ed i suoi tre figli, una bimba di 5 anni, un bimbo di 1 anno e mezzo ed un altro di poche settimane, provarono a ritornare alle loro case e le trovarono distrutte. Furono allora radunati, uomini da una parte, donne e bambini dall'altra per essere uccisi. "Mi ha salvato Dio".
Sì, vabbè, pensiamo noi che l'ascoltiamo ricordare.
Ma poi, la spiegazione ha dell'inverosimile.
Quando il gruppo in cui era presente Shahira stava per essere condotto fuori dal campo, nello stadio dove sarebbero avvenute le esecuzioni, qualcuno urlò "Lasciateli stare!".
Ancora oggi, Shahira non sa a chi appartenesse la voce grazie alla quale molte vite vennero risparmiate. Tanti di coloro che furono condotti nello stadio, morirono saltando in aria sulle mine, precedentemente collocate nel sottosuolo.
Altri furono giustiziati.
Molti sparirono per sempre.
Non sono mai stati ritrovati. Alle 6,00 del 19 settembre 1982, Shahira ed altre persone vennero condotte in una stanza pattugliata da un carro armato israeliano. La notte successiva trovò rifugio nell'androne di un palazzo distrutto. Infine, in una scuola. Avendo necessità di comprare del cibo per i suoi bimbi, lasciò quel rifugio e s'incamminò. Fu allora che vide un giornale con la foto di suo padre, ucciso dinanzi ai suoi occhi. Capì che il mondo sapeva. Finalmente. Chiese di andare alla CRI, ma le fu consentito solo l'indomani, insieme a tutti coloro che cercavano i propri cari, o ciò che ne rimaneva.

Una settimana dopo il massacro, la CRI sistemò i cadaveri in sacchi di plastica bianchi e si apprestò a seppellirli in una fossa comune. Shahira rifiutò questa soluzione, chiese ed ottenne che i suoi cari venissero sepolto nel cimitero dei martiri dell'OLP.
Poi, pian piano, anche con il sostegno economico del Dipartimento degli Affari Sociali dell'OLP, ha ripreso a vivere.
Nonostante le difficoltà quotidiane del campo, la scarsezza di energia elettrica, garantita dal governo libanese per tre ore di giorno e tre di notte, la mancanza di acqua potabile, le malattie, il poco spazio a disposizione per i bambini (il campo è poco meno di un chilometro quadrato e vi vivono 20.000 persone, di cui 8.000 palestinesi), l'altissimo tasso di disoccupazione, Shahira ha una luce abbagliante nello sguardo. È fiera ed indomita, questa donna originaria di Haifa che vuole andare nella sua terra. Vuole poter posare i suoi piedi su quel terreno di cui oggi gode chi glielo ha rubato. Nessuna incertezza nella sua voce, sia quando condanna un massacro inutile, che aveva il solo scopo di annientarli, sia quando dice che lei andrà a casa sua, in Palestina...in tutta la Palestina.
