Divieto di ingresso negli USA per la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale

Divieto di ingresso negli USA per la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale

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di Giuliano Battiston - Il Manifesto


Niente più visto d’ingresso negli Stati uniti per Fatou Bensouda, procuratrice capo della Corte penale internazionale. Al governo americano non piace il lavoro della giurista gambiana, al vertice della Corte dal 2012.


Il segretario di Stato Mike Pompeo è stato di parola. Il 15 marzo aveva sostenuto che il lavoro della Corte è un «attacco allo stato di diritto americano», minacciando di negare il visto ai suoi membri se avessero proseguito le ricerche su eventuali crimini commessi in Afghanistan da soldati e funzionari statunitensi o alleati.


Nel novembre 2017 Bensouda ha chiesto ai giudici della Corte penale l’autorizzazione per aprire un’inchiesta ufficiale su presunti crimini di guerra in Afghanistan. La richiesta si basa su un esame preliminare di testimonianze e documenti. Indicano che i crimini di guerra e contro l’umanità ci sono stati, sono stati sufficientemente gravi da meritare l’attenzione della Corte e che le corti interne dei Paesi coinvolti (l’Afghanistan ma anche Polonia, Romania, Lituania, che hanno ospitato le carceri segrete della Cia o favorito le extraordinary renditions di presunti terroristi) sono incapaci o non hanno la volontà di condurre un’indagine.

 

Come ha ricordato nei suoi articoli per l’Afghanistan Analysts Network Kate Clark, che segue da anni la questione, la richiesta di giustizia è predominante tra le vittime afghane. A inizio 2018 la Corte ha ricevuto segnalazioni per 1,7 milioni di casi: tentati omicidi, privazione della libertà, torture, violenze sessuali, sparizioni forzate, attacchi ai civili. Da mandato la Corte penale internazionale può esaminare e giudicare solo i crimini commessi dal maggio 2003, quando è entrato in vigore in Afghanistan lo Statuto di Roma sottoscritto dal governo.


I responsabili sono tutti gli attori del conflitto. Anche gli americani. Già nel novembre 2017, ricorda Clark, «l’ufficio del Procuratore ha deciso che, oltre a prove credibili contro i Talebani, altri gruppi di insorti e le forze governative, c’era “una base ragionevole” per credere che durante gli interrogatori dei detenuti» i membri della Cia e dell’esercito americano «abbiano fatto ricorso a tecniche equivalenti a crimini di guerra come tortura, trattamenti crudeli, oltraggio alla dignità personale e stupro».


Per l’ufficio di Bensouda, «questi presunti crimini non erano soltanto abusi di pochi individui isolati», ma parte di una vera e propria politica. Non è una novità. Alcune inchieste, anche dello stesso governo Usa, sono arrivate a conclusioni simili. Ma è sempre mancata la volontà di perseguire i colpevoli. Da qui la richiesta della Procuratrice capo.


I giudici interni della Corte ancora non hanno dato il via libera, ma è il governo Usa è già corso ai ripari. L’attacco più duro risale al settembre 2018 quando John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, ha condannato come «inefficace, completamente pericoloso, del tutto ingiustificabile» il lavoro della Corte, perché andrebbe «contro quei patrioti americani che volontariamente hanno rischiato per proteggere la nostra nazione, le nostre case, le nostre famiglie dopo l’11 settembre».


Poi le minacce: «Bandiremo dagli Stati uniti giudici e procuratori della Corte. Sanzioneremo i loro fondi nel sistema finanziario americano e li perseguiremo nel nostro sistema giudiziario», insieme a chiunque li aiuti. Tra questi c’è proprio il governo afghano, in una situazione particolarmente difficile.


Da una parte come aderente alla Corte è tenuto a collaborare. Dall’altra deve la propria sopravvivenza finanziaria e militare a Washington, che per i propri soldati vuole l’impunità. Nell’agosto 2002 il presidente Bush ha ratificato l’American Service-Members’ Protection Act: autorizza l’uso della forza militare per liberare qualunque cittadino statunitense o di un Paese alleato trattenuto all’Aia, sede della Corte, e vieta qualunque forma di cooperazione con la Corte.


Al 2002, 2003 e 2014 risalgono gli Accordi con Kabul sullo Status delle forze militari, che vietano al governo afghano di consegnare personale Usa a tribunali internazionali o di uno Paese terzo. Eppure per Bolton gli Stati uniti hanno «il più robusto sistema di indagine, accountability e trasparenza al mondo».

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