“Droni russi in Italia”: come Zelensky cavalca l’isteria con un obiettivo preciso...
Dalla Polonia al rischio che, secondo Zelensky, correrebbe anche l'Italia: un crescendo di allarmi sui droni russi che serve a Kiev e ai suoi alleati per mascherare le difficoltà sul campo e legare l’Europa a un destino comune di paura.
di Francesco Fustaneo per l'AntiDiplomatico
Mentre il fronte ucraino continua a cedere progressivamente di fronte all’avanzata russa, Volodymyr Zelensky sembra stia orchestrando una nuova e potente campagna sul fronte della comunicazione. Il bersaglio non sono più solo i carri armati o i missili, ma una minaccia più subdola e psicologicamente pervasiva: i droni. Quella che sta emergendo non è una semplice sequenza di incidenti di frontiera, ma una vera e propria "coreografia della paura", abilmente cavalcata dal leader ucraino e dai suoi alleati per rilanciare un sostegno europeo che mostra crepe pericolose.
Zelensky, d’altronde, lo ha affermato senza mezzi termini su X (ex Twitter): la Russia, secondo lui, non sta solo colpendo l’Ucraina, ma sta "mettendo alla prova la capacità di difendersi" dell’Europa. L’obiettivo finale sarebbe psicologico: seminare il dubbio nelle opinioni pubbliche occidentali. Il messaggio che Mosca vorrebbe far passare, sempre secondo l’interpretazione di Kiev, è semplice e destabilizzante: "Se non riusciamo a proteggerci, perché dovremmo continuare a sostenere l’Ucraina?".
È una lettura che trasforma ogni drone segnalato o ogni presunta violazione aerea in un argomento politico. L’episodio dei 92 droni diretti verso la Polonia, di cui 19 effettivamente penetrati nello spazio aereo nazionale, diventa la prova generale di un assalto più ampio. E Zelensky, con un abile gioco di anticipazione, allarga la mappa del pericolo: "L’Italia potrebbe essere la prossima. Vedete Norvegia, Danimarca. Ci sono segnali dalla Svezia". Un elenco che suona come un avvertimento e, al tempo stesso, come un invito a stringere i ranghi.
A onor del vero, a ribattere al presidente ucraino è intervenuto finanche il ministro degli Esteri, Tajani, il quale ha affermato di non credere che l’Italia sia un obiettivo militare: "La difesa aerea italiana è comunque in grado di verificare cosa accade e di abbattere droni con intenzioni minacciose", ha spiegato.
La vicenda sta comunque assumendo contorni isterici e a tratti grotteschi, contribuendo ad alimentare la tensione. Dai Mig-31 russi in spazio aereo estone per 12 minuti, ai misteriosi sorvoli in Danimarca definiti "attacco ibrido", fino alla chiusura della pista all’aeroporto di Schipol ad Amsterdam per un banale avvistamento: ogni evento viene ingigantito e inserito in un’unica, minacciosa narrazione.
In questa spirale di tensione si è inserito anche un fatto, stavolta tutto interno all’ambito NATO, tra Ungheria e Ucraina. L’accusa di Kiev verso Budapest per uno sconfinamento di un drone – prontamente e categoricamente negato dal governo ungherese – rivela la natura strumentale di questa campagna. L’Ungheria di Orbán è infatti forse il paese più riluttante all’interno dell’UE sul sostegno a Kiev. Sollevare un caso del genere, insistendo nonostante le smentite, serve a mettere agli angoli i partner più esitanti, dipingendoli come ingenui o, peggio, complici di una strategia di destabilizzazione russa.
Zelensky sa che l’Europa non può proteggere ogni chilometro del suo cielo con un Patriot. Lo ammette lui stesso: "Non ci sono molti intercettori al mondo". La sua richiesta, quindi, non è solo di nuovi sistemi d’arma, ma di un trasferimento totale di "conoscenza". È un appello a un coinvolgimento più profondo, che va oltre la semplice fornitura di hardware: la competenza delle "squadre antincendio mobili, dei nostri operatori di droni, della leadership delle nostre forze aeree".
In altre parole, Kiev chiede all’Occidente di legare la propria sicurezza a quella ucraina in modo indissolubile. Se un drone sopra la Polonia o un aereo sopra l’Estonia sono una minaccia per tutti, allora la vera linea del fronte non è più il Donbass, ma i confini orientali della NATO. È una strategia audace, forse disperata, per riconvertire una situazione militare tragica in una vittoria politica, trasformando la paura dell’Europa nell’ultima, migliore arma a disposizione di un presidente che vede il tempo scorrergli contro.