Fulvio Grimaldi - Sardinia infelix. Non si uccidono così anche le isole?

Dal banditismo di rivendicazione sociale a quello di speculazione sulle risorse. Dal devastante e fallimentare esperimento di industrializzazione, a quello delle pratiche di guerra in un’isola che è tutta un poligono. Dall’aggressione ad ambiente, cultura ed economia nel nome della transizione ecologica. Fino alla produzione delle bombe per le guerre sion-atlantiche

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Fulvio Grimaldi - Sardinia infelix. Non si uccidono così anche le isole?

 

di Fulvio Grimaldi

Non solo Rheinmetall, il colosso degli armamenti tedeschi e uno dei più grandi del mondo. E non solo Germania, con il suo nuovo megastabilimento in Bassa Sassonia. Rheinmetall Unterluess, alla luce degli 800 miliardi promessi da Ursula von der Leyen agli armaioli UE, si ripromette di passare da 200.000 a 350.OOO proiettili di artiglieria l’anno.e, nel contesto dei 1000 miliardi cui punta Ursula per il 2030, di arrivare a 300 miliardi di commesse, pari al 25% di tutto quello fanno gli altri europei.

Non solo Germania, e non solo Rheinmetall nella costellazione di nuovi o potenziati stabilimenti di armamenti che stanno sorgendo come funghi in Italia, a partire dalla Spezia, capitale di Leonardo con la sua Oto Melara, o da Colleferro, dove si produrranno nitroglicerina e altre schifezze esplosive. E a finire dove? Ma è ovvio, in Sardegna, dove nessuno si è mai sognato di impiantare qualcosa di militare….

Senza calcolare che, contagiati dalla frenesia bellica dell’eurolobbista tedesca e per non sapere nè leggere né scrivere, i nostri equipollenti della stessa lobby hanno sancito che le grandi opere, quali il Ponte sullo Stretto, o la diga foranea di Genova e, magari, la terza linea della metro romana, nel nuovo clima di festività belliche hanno assunto valenza militare e NATO. Galera per chi si oppone (Decreto Sicurezza). Che si astengano, dunque, procure temerarie e urticanti manifestanti, dal protestare nel nome di legge, ambiente e normative antimafia.

Ma la notizia grossa sgorga dal Sulcis. Già, proprio quella terra del carbone, rame, piombo che, dopo aver avvelenato generazioni di minatori sardi e dopo avere rimediato alla chiusura delle miniere facendone musei per mezza dozzina di visitatori al mese, è tornata, con una fallimentare industrializzazione, al business della devastazione ambientale, culturale, sociale ed economica.

E cosa poteva programmare lo Zeitgeist che soffia dalle narici degli energumeni con elmetto che conducono questa Europa, se non una bella nuova grossa fabbrica di morte. Si chiama RWM, ma è Rheinmetall (nome d’arte di Blackrock) e occupa 193 ettari del Sulcis e ora vanta anche un poligono dove si possa vedere l’effetto che fa. Gli effetti esterni delle sue bombe sono magnificati dai corpi maciullati, spesso di bambini, in Yemen, in Ucraina e a Gaza. Quelli interni indicano un aumento del fatturato da 92 a oltre 114 milioni tra 2013 e 2019. Con profitti non comunicati, ma circa quintuplicati da lì in poi.

Questo a dispetto delle leggi che vietano rigorosamente la vendita di armi a paesi in guerra, o a dittature. Ma che sarà mai? Conta che i clienti, Emirati Arabi e Arabia Saudita, siano capaci di farsi valere nel mondo e paghino sull’unghia.

Nel frattempo, però, e fin dal dopoguerra, ci si era preparati a non perdere un’altra, definitiva, soluzione all’arretratezza di quei pastori da formaggio: poligoni. E che non ne sia privato neanche un KM2 dell’isola.

Siamo a fine giugno 1967. Inviato di guerra a Paese Sera, sono appena tornato dalla guerra dei Sei Giorni nella Palestina occupata. Mi dicono che c’è un’altra guerra, più piccola, da seguire. Quella tra Stato Italiano (si chiama sempre così ogni nostro governo, perlopiù millantando) e banditi del Supramonte, Orgosolo, nuorese, Sardegna.

Era l’epopea del banditismo sardo, quello connotato anche di una sfumatura più o meno convinta di antisistema. Che si sarebbe più tardi evidenziata con lo scontro a fuoco tra carabinieri e la cosiddetta “Anonima Sequestri”. Graziano Mesina scampo’, ma rimase colpito a morte il suo compagno più stretto: Miguel Atienza, spagnolo reduce dalla Legione e “politico” della banda.

Graziano Mesina

Come Sistema va percepito quello secolare di una Sardegna di agricoltori e pastori poveri, colonizzata, trascurata, vilipesa, abbandonata alle prepotenze e angherie dei padroni terrieri e della ferocia autorizzata delle forze della repressione, carabinieri, soldati, giudici, forze dette dell’Ordine. Di conseguenza, i banditi.

Peppino Campana

A Orgosolo e Orune, capito che non andavo visto come canarino di quell’Ordine, feci molte amicizie. Apprezzai un’ospitalità senza riserve, un’intelligenza sopra la media, una fedeltà ai propri territori e alle proprie storia, un passato che non era tale. Tutti sapevano tutto, compreso dei banditi. Al termine di alcuni sequestri di potentati che avevano suscitato interesse anche internazionale, il giornale mi sollecitò un’intervista a qualcuno dei protagonisti dei rapimenti. Furono voci locali a sussurrarmi di recarmi a quell’ora, di notte, in quel posto, un pagliaio a Orune, a incontrare “il bandito”. Contavo su Mesina, incontrai il numero due del mediaticamente consolidato trio: Graziano Mesina, Peppino Campana e Nino Cherchi. Paese Sera lo considerò comunque uno scoop.

Due anni dopo, l’afflato sociopolitico del banditismo nuorese si era andato riducendo in criminalità senza orpelli, ma dimostrò tuttavia di aver agito da innesco. Nel giugno del 1969 una vera e propria rivolta di popolo, della forza e della coscienza non dissimile dal contrasto col fascismo e dalla protesta contro la guerra al Vietnam, impedì l’ulteriore estensione nel nuorese della manomorta militare sull’intero territorio dell’Isola. Fu la Rivolta di Pratobello, intimamente antimilitarista, in cui la popolazione di Orgosolo debellò il proposito, imposto manu militari, di installare un poligono sul proprio territorio.

A me di quei mesi all’ombra del Supramonte, imprendibile roccaforte di quella che si considerava e veniva anche riconosciuta, almeno in quella prima fase, come risposta a storici soprusi, è rimasto fino ad oggi un forte attaccamento a quella terra e a quella gente. Sottofondo emotivo che mi rese graditissimo il ritorno da quelle parti commissionatomi da dal direttore di un’altra testata impertinente, pure non distante dalle istanze di chi non si identifica con l’esistente: il TG3, quello di Sandro Curzi.

Il 15 gennaio del 1992, un bambino di 7 anni, figlio del ricco albergatore della Costa Smeralda, Fateh Kassam, fu rapito, secondo la magistratura che lo condannò a 30 anni, da Matteo Boe, che se ne dichiarò sempre incolpevole. Così la sua famiglia, che ebbi modo di incontrare. Il bambino si chiamava Farouk e suo nonno era un potente imprenditore, vicinissimo all’Aga Khan, padrone di buona parte della Costa Smeralda.

Le voci univoche dei media scansarono l’ipotesi che il rapimento potesse essere inserito nel conflitto tra l’Aga Khan e un nuovo pretendente, Silvio Berlusconi, per il controllo di quel lucroso forziere turistico. Doveva trattarsi dei soliti banditi sardi, punto. Niente imbarazzanti complicazioni politiche. Era anche la posizione del Procuratore di Cagliari, Mauro Mura.

Che mi ebbe subito in uggia. Ottenuto dal custode della villa di Kassam l’eccezionale consenso a visitarla, ebbi modo di trovare un’abitazione ricolma di cimeli e fotografie che mostravano l’Aga Khan in amichevole compagnia del padre e nonno di Faruk. Con tanto di rispettive famiglie. Conferma di un sodalizio che la stampa e le autorità negavano recisamente. Nei miei reportage al TG3 espressi le ragioni per le quali l’ipotesi di un rapimento scaturito da una competizione imprenditoriale, tra il principe iraniano e Berlusconi non era da escludere. Anzi era condivisa da molti osservatori del luogo. Non mi convenne: Curzi mi richiamò bruscamente a Roma e disse che il provvedimento gli era stato richiesto dal procuratore di Cagliari.

Qualcuno ricorderà che Faruk fu poi liberato in seguita a una molto opaca mediazione del redivivo campione mondiale delle evasioni, Graziano Mesina.

Ho in Sardegna un gruppo di amici, validi combattenti per rovesciare l’assunto che la loro regione debba restare per ineluttabile fato una pietanza da masticare e divorare da “quelli del Continente”. Con loro si sono allestiti vari convegni su cose di Sardegna e del mondo, in particolare sulla Palestina, con la quale molti sardi vivono in comprensibile simbiosi.

Sono questi giovani compagni che mi hanno accompagnato nel deprimente e doloroso giro per la Sardegna della mappa che qui vedete: 35.000 ettari sottoposti a servitù militare, il 65% del demanio militare nazionale.  Di poligono in poligono; di campo in campo delle esercitazioni in terra, mare e aria per le forze armate di Nato e mezzo mondo, Israele in testa; di laboratorio territoriale in laboratorio territoriale per esplosivi delle più famigerate industrie chimiche. E soprattutto di regione in regione, tutte colpite da tragedia ambientale, sanitaria, economica e sociale. Dalla Maddalena abbandonata, inquinata, dai sommergibili nucleari USA, a Capo Frasca, da Decimomannu a Salto di Quirra, dal porto militarizzato di Cagliari a Capo Teulada e a Perdasdefogu

Nell’Ogliastra medici e avvocati ci mostrarono le statistiche di una moria di greggi, armenti e umani, determinata dalle ricadute di milioni di tonnellate di esplosivo, con effetti che si perpetuano dagli anni ’50, quando questo divenne il destino che la NATO e i nostri governi, tutti, assegnarono all’Isola.  Antonietta Gatti, fisico e bioingegnere, nel suo laboratorio di Reggio Emilia mi mostrò immagini microscopiche di animali uccisi in Ogliastra dall’inquinamento da esplosivi, vitelli, agnelli. I loro tessuti erano contaminati da nanoparticelle, microresidui di metalli pesanti e leghe sospettati di essere il killer del poligono Quirra. 

Il processo che un coraggioso magistrato, Biagio Mazzeo, intentò a otto comandanti militari di quel poligono, iniziò mentre facevo le mie riprese, fu accompagnato per sette lunghi anni dalle manifestazioni di sostegno alle accuse di migliaia di manifestanti – esercitazioni NATO non recintate a protezione della popolazione civile, militari senza dispositivi di protezione - e culminò nel 2019 con la richiesta di condanna e… l’assoluzione di tutti gli imputati.

A Capo Teulada visitai un cimitero segnato da una teoria di volti giovani e meno giovani, militari compresi (che qui ritrovarono le condizioni del Kosovo impregnato di uranio) falciati dalle malattie “professionali” fiorite nei terreni adiacenti a quelli di esclusiva competenza militare. Dalle quali si bombardava per settimane e mesi il mare. Mare da cui i locali traevano il loro sostentamento. E fu, percorrendo quel mare con la sua barca, che da un pescatore apprendemmo la storia della “Pratobello di Capo Teulada”. Fu quando i pescatori, nel 2005, si fecero corsari e si misero di mezzo alle navi militari e ai bombardamenti da terra bloccandoli per un bel po’ e ricavandone almeno soste e un indennizzo permanente.

Tutto questo si può rivivere nel mio documentario “L’Italia al tempo della peste”.

Forse al milione mezzo di sardi sarebbe convenuto che l’apocalittica, ma ridanciana, commissaria UE, Hadja Lahbib, gli avesse fornito per tempo, cioè settant’anni fa, il suo “Kit di resilienza” anti-guerra alla Russia (dopo quella del Covid, abbiamo dovuto subire anche questa di “resilienze”). L’ambita borsa con la sua busta salva-acqua, il caricabatteria, il mazzo di carte, l’accendino, i profilattici chissà e, soprattutto, i salvifici antidoti alle radiazioni. Forse avrebbe ridotto il tasso di mortalità, cresciuto in pochi anni dall’11 al 13 per mille, con picchi del 15/1000.

Visto che la Sardegna può vantarsi di essere da oltre mezzo secolo il caposaldo tecnologicamente d’avanguardia di quella che, con molti altri, Crosetto chiama “Difesa” ed è certo onorata di sostenerne il non irrilevante peso, sopra appena accennato, perché privarla di un’altra funzione d’avanguardia nella marcia verso i destini robusti e salutari della nazione (di cui, nonostante tutte le apparenze, è parte)?

Non volendosi accontentare di quattro campi di lastre fotovoltaiche sterilizzanti ogni forma di vita e di mezza dozzina di torri eoliche, come altre regioni italiane, alla Sardegna è stato concesso un altro primato. Già arrivano navi cariche di mastodontiche turbine eoliche per 618 impianti con torri alte 200 metri che desertificano il territorio o mare sotto i propri piedi e ammazzano tutto ciò che vola e nuota (negli USA 1.600.000 uccelli all’anno) E guarda la sfiga: la Sardegna sta in mezzo ai pesci e il suo cielo è attraversato dai massimi flussi migratori del Mediterraneo.

In compenso produrrà 58 Gigawatt, la quasi totalità non per sé, visto che basta per 50 milioni di persone, 40 volte di più della Lombardia. E il privilegio di essere Sardegna, di non accontentarsi di guerre. E di essere nel cuore dei cultori del cambiamento climatico di origine antropica.

 

 

 

 

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