GLOBALIZZAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE E DELLE INGIUSTIZIE

GLOBALIZZAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE E DELLE INGIUSTIZIE

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di Michele Blanco*

Negli anni Ottanta del secolo scorso si descriveva il futuro prossimo della globalizzazione come di una età di crescita del benessere diffuso per tutta l’umanità, in tutti i paesi del mondo, ma «Oggi, invece, la crescente disuguaglianza non ha prodotto alcun conflitto di classe che minacci il sistema capitalistico, e ciò sebbene nelle economie avanzate questa si sia accompagnata con la deindustrializzazione e la schiavitù del debito.

È in questo contesto politico che una nuova generazione di miliardari ha abbracciato la filantropia. … non si può più fare affidamento sullo Stato per affrontare le ingiustizie sociali e le povertà. Al contrario la società si rivolge alle briciole filantropiche che cadono dalla tavola del padrone; bruscolini che cadono solamente lì dove i super ricchi decidono di farli cadere … ma guardando bene, esso appare un disegno complesso, volto a garantire che il sistema che ha generato le diseguaglianze, per le quali la filantropia è un unguento, permanga del tutto invariato», in Carl Rhodes, Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Roma, Fazi, 2023, pp. 251 e 254.

La globalizzazione oggi è certamente e identificata come causa di ingiustizie e tensioni sociali. Nel mondo contemporaneo possiamo parlare di tanti tipi di disuguaglianze, ma certamente, da un punto di vista economico, si può parlare della disuguaglianza tra tenori di vita, distinguendo fondamentalmente tra due tipi di tali disuguaglianze, quella mondiale (tra le nazioni) e quella all’interno delle singole nazioni. Quando si dice ad esempio che il 10% più povero ha un tenore di vita pari a un decimo del 10% dei più ricchi ovviamente non ha lo stesso significato in India e in Svizzera. Conviene allora aggiungere una regola generale quando si valuta la disuguaglianza: stabilire una soglia assoluta di povertà e il valore più utilizzato oggi è quello di circa un euro al giorno pro capite.

Considerando la disuguaglianza tra stati, dopo un secolo circa di continuo aumento, la disuguaglianza tra stati da più di vent’anni a questa parte ha iniziato a diminuire, se nel 1989 il tenore di vita in Francia e in Germania era di venti volte superiore a quello della Cina o dell’India, oggi questo divario si è dimezzato. D’altra parte la disuguaglianza all’interno di molti paesi è invece andata aumentando. Una spiegazione della diminuzione della disuguaglianza tra stati negli ultimi 20 anni è dovuta alla innovazione tecnologica, al miglioramento dell’istruzione, alla formazione della manodopera, alle conoscenze tecniche e scientifiche. Ovviamente non tutti i paesi in via di sviluppo stanno conoscendo questo processo di crescita.

Per quanto riguarda l’altro tipo di disuguaglianza, quella all’internodei singoli stati, questa è leggermente aumentata nel corso del 19° secolo, per poi ridursi notevolmente tra la prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra, fino agli anni Settanta del secolo scorso. La realizzazione di grandi sistemi di redistribuzione e anche l’egualitarismo imposto dalle rivoluzioni russa e cinese sui propri territori ha portato a ridurre tale disuguaglianza nella maggior parte dei paesi sviluppati. Dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso la disuguaglianza interna agli stati occidentali è andata aumentando. Lo sviluppo dei paesi emergenti e, in misura minore, di quelli in via di sviluppo contribuisce a ridurre la disparità tra i tenori di vita degli abitanti dell’intero pianeta, ma l’aumento delle disuguaglianze interne tende, al contrario, ad aumentarla.

Dato che il problema delle disuguaglianze è abbastanza uniforme, è difficile non collegarlo a cause comuni, e in particolare alla globalizzazione. Essa ha favorito la formazione di un mercato finanziario globale in cui le tecnologie della comunicazione consentono il trasferimento in pochi secondi di enormi capitali da un continente all’altro. L’informazione non ha limiti, quindi la crisi della borsa di un paese si riflette, nel giro di pochi minuti sulle borse degli altri paesi.

Il termine “villaggio globale”, che ormai è di uso comune, esprime bene la velocità e la diffusione della comunicazione nel mondo, per cui le notizie e le conoscenze non sono più ristrette a un numero limitato di individui ma diffuse e condivise in tutto il globo. Il potere della conoscenza delle tecnologie: le innovazioni tecnologiche non sono più necessariamente nei beni e nei servizi scambiati, ma sono incorporate nelle menti degli individui. In altre parole, per trarre vantaggio, in termini tecnico-scientifici, dalla conoscenza, occorre aver superato una determinata soglia di sapere, in modo da poter dialogare con tale conoscenza. Iperconcorrenza: la legge della competitività portata alle estreme conseguenze. Perdita costante di rilevanza della società statale, dello stato o del sistema nazionale. Formazione di una cultura globale, fortemente ispirata al consumismo e diretta dalla comunicazione del marketing.

La globalizzazione si rivela come un fenomeno dalle caratteristiche   assolutamente ambivalenti: c’è chi la mitizza e ne mette in luce gli aspetti positivi, come le differenze nella ricchezza delle nazioni si siano alquanto livellate, portando il tenore di vita medio dei cittadini di paesi emergenti come il Brasile, la Cina e l’India ad avvicinarsi a quello di nordamericani ed europei, ma riguarda solo le classi medie di tali paesi, e chi la demonizza, pensandola causa di tanti mali.

Quello che sappiamo è che all’interno dei paesi occidentali ha invece certamente contribuito all’aumento delle disuguaglianze, infatti attraverso la globalizzazione viene diminuita la remunerazione relativa del lavoro scarsamente qualificato, che subisce la concorrenza diretta della manodopera a buon mercato delle economie emergenti, e vengono aumentati eccessivamente i profitti del capitale. Questo ci sembra evidente e innegabile. In molti inoltre ritengono che la globalizzazione sia un fenomeno che impoverisce ancora di più i già poveri e arricchisce ancora di più i ricchi.  Ma il fenomeno fondamentale che ha caratterizzato il periodo della globalizzazione neoliberista è il taglio delle tasse pagate da chi ha redditi più elevati. Infatti dal punto di vista della distribuzione, le riforme più importanti sono state le modifiche alla tassazione, in particolare i tagli alle imposte sul reddito.

La giustificazione fornita era che le aliquote marginali sui redditi più alti erano praticamente confiscatorie scoraggiavano l’imprenditorialità e gli investimenti, incentivando l’evasione e l’ottimizzazione. Aliquote fiscali più basse erano intese a ripristinare questi incentivi e per ridurre l’evasione fiscale, mantenendo al contempo le entrate fiscali ai livelli esistenti. L’aliquota marginale più elevata è scesa dal 70% al 40% negli Stati Uniti durante l’amministrazione Reagan. Nel Regno Unito, è precipitato dall’83% al 60% nel primo anno del governo Thatcher mentre, contemporaneamente l’imposta sul valore aggiunto è salita dal 6% al 15%, come è facile vedere una riforma profondamente regressiva.

Più tardi, molti altri paesi adotterebbero misure simili, anche se non del tutto di vasta portata: la Germania nel 1986-1990, poi dì nuovo nel 2003, Francia nel 1986 e nel 2002. Un esempio drammatico di questo è stata la “riforma fiscale del secolo” della Svezia nel 1991. In questo paese tradizionalmente egualitario con un sistema fiscale fortemente redistributivo, l’aliquota marginale più alta è scesa dal 70% al 45%, mentre è aumentata l’aliquota fiscale indiretta per compensare almeno parte delle entrate perse. Come nel Regno Unito, la disuguaglianza aumentata in modo sostanziale. Le variazioni delle aliquote marginali più elevate sono solo una piccola parte delle riforme fatte in nome della liberalizzazione economica. Una caratteristica importante di queste riforme pro globalizzazione, anche essa legata alla crescente mobilità del capitale nel contesto della globalizzazione è stata l’introduzione della distinzione tra tassazione del reddito da capitale e risparmio e la tassazione del reddito da lavoro. Nel corso del tempo si e evoluto un sistema duale in cui i reddito da risparmio erano tassati a tassi forfettari non progressivi che erano destinati a essere più o meno simili tra i paesi e comunque inferiori alle più elevate aliquote marginali sul reddito da lavoro. Poiché la quota dei redditi da capitale tende ad aumentare del reddito, le aliquote d’imposta medie per le fasce di reddito molto alte sono effettivamente diminuite.

Questo era vero in Francia, negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi sviluppati. Allo stesso modo, le aliquote fiscali sugli utili societari sono state ridotte anche nella maggior parte delle economie sviluppate, con l’ovvio risultato che la tassazione diretta è diventata sempre più meno progressiva. Negli Stati Uniti, ad esempio, un’analisi che teneva conto delle imposte federali su reddito, profitti, eredità e costi del personale ha mostrato che l’aliquota effettiva dell’1% più ricco diminuiva di circa 15 punti percentuali tra il 1970 e il 2004, spesso diminuendo sotto quello pagato dalla borghesia.

All’altro estremo della scala, c’è stata una generale riduzione della redistribuzione alla fascia di popolazione a più basso reddito, con tagli siano avvenuti al welfare in molti paesi. Il welfare state nel Regno Unito ha subito gravi tagli sotto il governo Thatcher e la crisi economica in Svezia nei primi anni ’90 ha portato il paese a riformare il suo sistema di protezione sociale. In entrambi i casi, le riforme hanno portato a un aumento della disuguaglianza rispetto a un sistema di tassazione meno progressista. In altri paesi, la spesa sociale è stata allo stesso modo ridotta. Tutto questo è continuato nel mondo occidentale in modo costante fino ai nostri giorni.

Secondo alcuni economisti, si dice efficiente una situazione in cui non è possibile aumentare il benessere di un soggetto senza diminuire quello di un altro. Ma oggi di sicuro, sappiamo che troppa disuguaglianza ostacola il funzionamento dell’economia e in modo particolare la crescita economica, tanto decantata dagli economisti come la panacea di tutti i mali. Come quando in una nazione ci sono alunni dotati che però non hanno accesso all’istruzione superiore perché le loro famiglie non possono permetterselo, e viceversa vanno all’università ragazzi anche non particolarmente dotati, nati in ambienti privilegiati: questo ci sembra un chiaro esempio di economia non efficiente. Così, ad esempio, uno stato in cui c’è una violenza endemica, come in tantissime nazioni africane per esempio, non potrà avere un’economia efficiente perché la popolazione e lo stato saranno costretti a destinare gran parte del loro bilancio alla sicurezza.

François Bourguignon in La globalizzazione della disuguaglianza, Torino, Cortina, 2013, afferma che in questo contesto un dato positivo è la comparsa di una coscienza mondiale del legame che collega globalizzazione e disuguaglianze. La necessità attuale sarebbe sufficiente che i paesi sviluppati ed emergenti fossero in grado di controllare l’incremento delle disuguaglianze interne alle proprie economie per fermare la globalizzazione della disuguaglianza conservando al contempo i lati positivi della globalizzazione. La lotta alle disuguaglianze deve diventare impresa comune. Evitare la globalizzazione della disuguaglianza passa attraverso una globalizzazione della redistribuzione.

Infatti ci troviamo in un mondo globalizzato, in un villaggio globale, veniamo a conoscenza continuamente di ciò che avviene nella altre parti del pianeta e quindi non possiamo ignorarlo, dobbiamo sentircene responsabili. Tuttavia quello che noi veniamo a conoscere è selezionato non secondo nostre scelte, ma secondo ciò che taluni decidono di farci conoscere, questo accade sempre di più. Inoltre la manipolazione dell’informazione riesce a confezionare le notizie riuscendo a far passare un crimine efferato come un bombardamento sulle popolazioni civili in uno Stato sovrano e indipendente come una guerra umanitaria. Se a bombardare sono gli occidentali e i loro alleati diventa “un intervento umanitario” se sono altri è un “efferato crimine contro l’umanità”. E magari quando non fa più notizia, queste informazioni si spengono, anche se i problemi e le tragedie restano. Ciò significa che siamo, sì, globali, ma non siamo un “villaggio”: in un villaggio ci si guarda negli occhi, ci si conosce, si condividono le gioie e le pene di tutti. In definitiva, la globalizzazione deve essere per l’uomo. Si spera che lo sia per l’umanità intera ma deve iniziare dal considerare tutte le persone con gli stessi diritti e opportunità, senza distinzione alcuna, ma gli avvenimenti del mondo contemporaneo dimostrano chiaramente che esistono persone che hanno un valore e altre che ne hanno, purtroppo di meno. Basta guardare il valore dato alla vita e alle sofferenze di un bambino palestinese, o del Sud Sudan, confrontata con il valore dato alla vita e alle sofferenze dei bambini europei, che devono assolutamente essere la stessa cosa. Tutto queste ignobili differenze non sono tollerabili ne ammissibile in nessun caso, in nessuna parte del mondo.

*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/

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