I 2 motivi di disagio nel celebrare l'anniversario della morte di Gramsci

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I 2 motivi di disagio nel celebrare l'anniversario della morte di Gramsci


di Paolo Desogus*
 

83 anni fa moriva Antonio Gramsci. Oggi più che in passato faccio però molta fatica a celebrare questo anniversario. In parte - permettetemelo - per una ragione molto personale. Da settembre scorso ho lavorato per organizzare un nuovo convegno su Gramsci a Parigi insieme all'Istituto italiano di cultura e in collaborazione con la Fondazione Gramsci di Roma. Insieme ad alcuni colleghi ho scritto il progetto, chiesto i finanziamenti, invitato gli studiosi, tra i maggiori in circolazione. I lavori si sarebbero dovuti tenere la settimana scorsa, il 23 e 24 aprile. A causa della pandemia il convegno è stato rimandato, senza avere però la sicurezza di poterlo riproporre, visti i tempi così incerti.
 

C'è di peggio. C'è chi sta perdendo il lavoro. Chi è a casa senza un quattrino per pagare l'affitto, la rata del mutuo, le tasse di iscrizione all'università del figlio. C'è una parte di Italia che sta già soffrendo pesantemente l'incipiente crisi economica che tra non molto, quando salterà la stagione estiva, si presenterà nel suo dato più brutale. Ecco, da questa rassegnazione con cui guardo al futuro deriva il secondo e principale motivo di disagio per l'anniversario della morte di Gramsci. Di fronte alla grande sofferenza economica che minaccia il paese manca infatti in Italia una reazione forte: una reazione politica. Il dibattito si è arenato su misure palliative, tendenzialmente economicistiche, legate al mondo immaginario degli Eurobond e dei recovery fund.
 

Quando dico che manca una reazione politica intendo allora dire che non c'è nel paese una forza politica che porta avanti le istanze dei lavoratori e delle classi popolari. Non c'è il "moderno principe" capace di sintetizzare e centralizzare l'opposizione alle classi dominanti. Le proposte che si leggono - per usare i termini gramsciani - stazionano pigramente al livello "egoistico-passionale". Viviamo in altri termini in una condizione di determinismo economico: il mercato decide, stabilisce, ordina, senza che una volontà politica vi si contrapponga dialetticamente facendosi portatrice di un'idea di civiltà diversa da quella neoliberale che ci opprime.
 

Eppure si sente dire che nulla sarà come prima. Che tutto sta mutando. Perché il virus ha trasformato la nostra esistenza. E tuttavia le proposte politiche attuali mirano tutte a un ritorno al passato, alle vecchie abitudini, alla vecchia politica diseducata a decidere perché i mercati e la governance europea decidevano al suo posto. Di fronte a questa doppia tensione, tra conservazione e cambiamento, il mio timore è che del passato permanga il peggio e che di nuovo arrivi solo la cancellazione del residuo di diritti sociali che ancora resistevano.


*Professore alla Sorbona di Parigi

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