Il Donbass, un anno dopo il referendum separatista
"Se Kiev piange, i separatisti delle autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Luhansk di certo non ridono"
La premessa doverosa da fare, citando un vecchio proverbio, è che se Kiev piange, i separatisti delle autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Luhansk di certo non ridono. Oggi ricorre l’anniversario del referendum che, esattamente un anno fa, sancì ufficialmente la divisione tra il Donbass e il resto dell’Ucraina. Una ricorrenza che in pochi ricordano, ma che può essere utile per fare un punto della situazione rispetto a ciò che sta accadendo nelle regioni separatiste ucraine a livello economico e sociale.
Perché chi ha scelto di rimanere dalla parte “sbagliata” della barricata, almeno secondo il mainstream occidentale, non se la passa certo meglio di chi ha scelto un futuro europeo, seppur ancora molto incerto e sotto la supervisione della Troika. Dodici mesi dopo quel voto, un vero e proprio plebiscito (il 90% di chi si recò alle urne scelse l’indipendenza), la situazione nella regione appare davvero molto difficile. Da diversi mesi Kiev ha scelto la strada del blocco economico, smettendo di pagare pensioni e altre prestazioni sociali, nel tentativo di creare malcontento sociale tra le popolazioni di Donetsk e Luhansk.
I capi delle due autoproclamate Repubbliche, Igor Plotnitsky (Luhansk) e Alexander Zakharchenko (Donetsk), non si sono dati per vinti e, attraverso non meglio precisati finanziamenti esterni, sono riusciti a ripristinare parzialmente i pagamenti di stipendi e pensioni, ma non a smaltire l’arretrato, con un ritardo medio sulle prestazioni sociali che si aggira attorno ai 3-4 mesi. Senza contare che molti salari per lavori importanti, come lo scavo di trincee, la costruzione di bunker e la riparazione di attrezzature militari, vengono corrisposti non in rubli, diventati ormai la moneta ufficiale, ma direttamente con razioni di cibo, elemento sempre più prezioso da queste parti.
Quello che però un tempo era il cuore industriale del paese, e che contribuiva per oltre il 20% alla produzione industriale nazionali, oggi non è altro che un cumulo di macerie, strade interrotte e zone isolate. La produzione di acciaio e carbone è bloccata e questo ha danneggiato seriamente anche Kiev, costretta questo inverno, per la prima vola nella sua storia, a importare carbone dal Sudafrica. Donetsk, che prima della guerra era il centro di tutto questo, adesso è una città che si lecca ferite profonde e molto difficili da rimarginare. Simbolo della devastazione sono l’aereoporto, completamente distrutto, almeno nella parte che riguarda il terminal, e la Donetsk Arena, pesantemente danneggiata dai bombardamenti di questi mesi. Entrambi ammodernati per gli Europei di calcio del 2012, sono diventati l’emblema di uno scontro militare che non guarda in faccia niente e nessuno.
Altre città, invece, si sono trasformate in luoghi fantasma. Debaltseve, protagonista di un assedio senza precedenti, culminato subito dopo gli accordi di Minsk-2 con la resa dell’esercito ucraino, conta attualmente 5 mila abitanti contro gli oltre 27 mila di un anno fa. Lo stesso a Horlivka, altro centro importante della regione, che è passato da 276 mila a poco più di 180 mila. Alcuni villaggi poi sono stati rasi al suolo, mentre altri sono raggiungibili solamente a piedi.
Ad ogni modo la guerra non ha distrutto solo le vite di intere famiglie e il futuro di molti bambini, ma sta ledendo anche gli interessi economici di alcuni ricchi e famosi oligarchi. Rinat Akhmetov è tra questi. Nel 2014 il suo patrimonio era stimabile in 22 miliardi di dollari, mentre adesso è calato a poco più di 7. Quando a fine aprile i minatori hanno protestato davanti l’amministrazione presidenziale a Kiev, sollevando un grosso polverone mediatico, in molti hanno intravisto l’ombra dell’oligarca, molto attivo nel settore carbonifero. Per il momento non ci sono prove del suo coinvolgimento diretto, ma in molti hanno più di qualche elemento per sospettarlo. Akhmetov ha tutti gli interessi di porre fine a questa guerra e anche di far cadere Poroshenko, per spostare nuovamente gli equilibri economici degli oligarchi nella direzione giusta, cioè a est del Paese. E non è un caso che negli scorsi mesi il proprietario dello Shaktar Donetsk, una delle società calcistiche più famose dell’Ucraina a livello internazionale, sia stato interrogato per presunti finanziamenti ai filorussi. Un Donbass autonomo dai diktat di Kiev, telecomandati direttamente da Bruxelles, gli farebbe certamente comodo.
E’ qui, sulla questione autonomia, che si gioca il futuro delle due repubbliche e dell'intera Ucraina. Kiev è disposta a concederla solo nel caso in cui gli attuali capi filorussi abbandonino i loro posti di comando e scappino in Russia. Ipotesi più volte respinta da Zakharchenko e Plotnitsky, i quali di andarsene non ne vogliono proprio sapere. Così ogni giorno in Ucraina, sin dallo scorso febbraio, quando in Bielorussia vennero siglati gli accordi di Minsk-2, si vive una sorta di giorno della marmotta. Con Kiev che accusa i filorussi e i filorussi che accusano Kiev, aspettando la fine di una guerra che probabilmente non arriverà mai.