Kraus, la Palestina, il cielo e oltre un secolo di bombe
Perché rifersi a Karl Kraus mentre in Palestina prosegue uno sterminio senza soluzione di continuità? Forse perché ci manca un brillante intellettuale che sappia descrivere un epoca attraverso il collage dei suoi frammenti, delle sue stupidità e del suo servilismo? Anche per questo, certo, ma soprattutto perché aveva compreso che l'industrializzazione della guerra sarebbe stato l'avvio del secolo delle bombe che avrebbe fatto del cielo, luogo della tensione all'infinito di ogni uomo, una sorgente di morte e orrore.
di Diego Angelo Bertozzi
Nel suo capolavoro "Gli ultimi giorni dell'umanità", il viennese Karl Kraus presenta la prima guerra mondiale senza consolazioni, abbellimenti ed eroismi; a differenza di un altro mostro sacro della letteratura mondiale come Thomas Mann che affidava all'evento bellico l'abbandono delle mollezze borghesi della pace e la rinascita dell spirito tedesco, l'autore viennese non ne subisce il fascino, anzi, la sua opera, frutto della ricomposizione di dispacci e articoli di giornali, di elementi bruti che emergono dalla società, ma ne rivela il carattere pienamente industriale, di messa in scena delle ultime innovazioni tecnologiche.
Perché rifersi a Karl Kraus mentre in Palestina prosegue uno sterminio senza soluzione di continuità? Forse perché ci manca un brillante intellettuale che sappia descrivere un epoca attraverso il collage dei suoi frammenti, delle sue stupidità e del suo servilismo che si riflettevano anche in una barbarie della scrittura? Anche per questo, certo, ma soprattutto perché aveva compreso che l'industrializzazione della guerra sarebbe stato l'avvio del secolo delle bombe, con le sue crudeltà e inutilità. Un secolo che avrebbe fatto del cielo, luogo della tensione all'infinito di ogni uomo, una sorgente di morte e orrore. Così, infatti, scrive nella sua opera: l'uomo "scassinatore dell'aria, sfrutta la sua sicura distanza dalla terra per un attentato contro di essa. Non c'è progresso cui l'uomo partecipi senza trarne vendetta. Applicano immediatamente contro la vita proprio ciò che dovrebbe sostenerla, e se la rendono difficile proprio con ciò che dovrebbe alleviarla" tanto che "l'ascensione di una mongolfiera è una preghiera, quella di un aeroplano un pericolo per chi non vi partecipa"[1]. Per poi affondare la lama: "Di tutte le ignominie della guerra, la più grande è il fatto che quell'unica invenzione che ha portato l'umanità più vicina alle stelle è servita soltanto a dar prova della sua bassezza anche nei cieli, quasi che in terra non ci fosse spazio abbastanza"[2]. Da luogo del divino, dell'infinita tensione degli occhi e dell'anima verso libertà e perfezionamento, il cielo - oggi drammaticamente quello su Gaza - è divenuto l'origine della perversione e della cancellazione di un popolo. L'autore qui parla della guerra soprattutto europea e assiste solo agli esordi del cielo come campo di battaglia e ne valuta in anticipo l'orrore nel continente considerato come un faro della civiltà e che ha colonizzato gran parte del mondo. È come se questa nuova tattica bellica dall'alto facesse venire definitivamente meno quelle regole "cavalleresche" che in qualche modo limitavano il confronto tra pari e civiltà affini. Invece per gli inferiori popoli coloniali queste regole, espressione di un minimo comune denominatore di umanità, evaporavano, ed evaporano tuttora. Alla stregua di bestie e scarafaggi, essi possono essere inceneriti senza alcuna pietà; Gaza (Palestina) è solo l'ultimo in ordine di tempo degli inumani stermini dall'alto, sempre giustificati in nome di una superiore civiltà, di cui l'arcinota espressione "unica democrazia del Medio Oriente", riferita a Tel Aviv, è solo una variante.
Le guerre coloniali, infatti, hanno sempre abituato militari e politici a vedere i bombardati come criminali che possono e devono subire una punizione collettiva. Il volo avrebbe dovuto portare "ogni sorta di benefici: democrazia, uguaglianza e libertà" perché "l'aria era il regno della libertà, nell'aria si poteva viaggiare senza bisogno di rotarie, sbarre e capistazione"[3]; questo nuovo spazio conquistato sembrava contrapporsi alla bellicosità dei confini e dei nazionalismi, mentre in realtà già si pensava all'aviazione come efficiente poliziotto in grado sì di annientare i selvaggi ma, soprattutto, di risparmiare vite tra le truppe bianche. Una "vertiginosa sensazione di potere"[4] e la convinzione che la superiorità tecnica riconoscesse alla razza bianca il diritto di vita e di morte su intere popolazioni hanno, fin dai primi anni del Novecento, battezzato ogni punizione coloniale come una esportazione di civiltà. In questo senso, quindi, la Palestina, finalmente liberata da bruti, terroristi per questione genetica e sfaticati, potrà finalmente diventare un nuovo Eldorado turistico e sviluppare quell'agricoltura moderna che proprio gli occupanti hanno strangolato. Tali operazioni non possono certo definirsi come guerre - e questa è una verità oggettiva - visto che assumono un carattere totalizzante solo per coloro che le subiscono, mentre per chi le conduce si entra nel campo dell'intervento poliziesco, a rischio minimo, con tratti persino da videogame sparatutto.
Noi italiani siamo tra i pionieri di questo tipo di intervento come dimostra ampiamente la politica sistematica di terrore e di sterminio messa in atto dal cielo in Etiopia, tanto che dal gennaio del 1936 "soldati, donne, bambini, bestiame, corsi d'acqua, laghi e campi sono stati inzuppati di una pioggia letale e incessante [l'iprite ndr]" con lo scopo di "annientare sistematicamente ogni forma di vita"[5]. Mussolini chiedeva espressamente di accanirsi contro la popolazione inerme, così da ordinare che venissero distrutte le installazioni della Croce Rossa. Vi ricorda qualcosa di attuale, in una terra dove ci si può chiedere se, dopo mesi e mesi di bombardamenti senza sosta, sia rimasto in piedi qualche scalcinato muretto a secco? Il cielo sa essere una cascata infernale, che brucia, ustiona, sbriciola e polverizza ogni sogno di infinito.
NOTE:
[1] Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell'umanità, Adelphi, 1996, Milano, p. 198.
[2] Ibidem.
[3] Sven Lindqvist, Sei morto! Il secolo delle bombe. Labirinto con 22 ingressi e nessuna uscita, 2001, Ponte alle Grazie, Milano, p. 57.
[4] Ivi, p. 69.
[5] Ivi, p. 130. Si veda anche Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, 2005, Neri Pozza, Vicenza, p. 198.