La scelta di Riad: una svolta storica per le relazioni internazionali
di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
La recente inclusione dell’Arabia Saudita nei Brics rappresenta un passaggio storico gravido di implicazioni strategiche, che giunge tuttavia a coronamento di un processo piuttosto rapido e radicale di riconfigurazione delle postura tradizionale del regno.
Nel dicembre 2022, quando Xi Jinping si è recato in visita di Stato presso una serie di Paesi del Medio Oriente nell’ambito del vertice Cina-Gulf Cooperation Council (Gcc). Mentre il tour diplomatico era in pieno svolgimento, il leader cinese ha dichiarato apertamente che: «nel corso dei prossimi tre-cinque anni, la Cina lavorerà di concerto con i Paesi del Gcc per la creazione di un nuovo paradigma di cooperazione energetica multidimensionale, nel cui ambito la Repubblica popolare cinese continuerà a importare grandi quantità di petrolio a lungo termine dai membri del Gcc e si impegnerà ad acquistare maggiori volumi di Gnl. Il rafforzamento della nostra cooperazione coinvolgerà tutta la filiera energetica, dai servizi di ingegneria allo stoccaggio, dal trasporto alla raffinazione. La piattaforma Shangai Petroleum and Natural Gas Exchange diverrà il punto di riferimento per quanto riguarda la regolazione del commercio di petrolio e gas in yuan-renminbi».
Gli incontri tra il leader di Pechino e le controparti del Gcc sono passati relativamente sotto silenzio, a dispetto della portata potenzialmente rivoluzionaria del loro contenuto. Anzitutto perché pongono le basi per la vanificazione dell’accordo siglato il 14 febbraio 1945 (ad appena quattro giorni di distanza dalla conclusione della Conferenza di Jalta), a bordo dell’incrociatore Uss Quincy in navigazione nel Grande Lago Amaro del Canale di Suez, tra Franklin D. Roosevelt e re Abdulaziz “Ibn” al-Saud che conferiva alle compagnie energetiche statunitensi gravitanti attorno all’orbita della Standard Oil – che già controllavano la totalità dei pozzi in Venezuela – i diritti esclusivi per lo sfruttamento delle risorse petrolifere saudite in cambio della protezione militare del regno e dell’appoggio politico alla famiglia al-Saud da parte degli Usa.
Nel 1974, sulla scia dello shock petrolifero scatenato dalla Guerra dello Yom Kippur, Richard Nixon impose a re Faysal un ritocco all’intesa originaria, vincolando le garanzie di difesa statunitensi all’impegno saudita a commercializzare il proprio petrolio solo ed esclusivamente in dollari americani e a riciclare parte ragguardevole dei proventi in investimenti in armi e Treasury Bond.
Nel corso dei decenni, la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio mediorientale è andata gradualmente attenuandosi, fino a ridursi drasticamente con la messa a regime dei giacimenti scistosi. Intanto, la Cina assurgeva a principale importatore di petrolio su scala mondiale, affermandosi come principale partner commerciale dell’Arabia Saudita nel 2021, con scambi bilaterali per un ammontare di oltre 81 miliardi di dollari. L’anno successivo, il regno è emerso come il principale fornitore di greggio della Cina, con 1,76 milioni di barili al giorno. Le esportazioni saudite negli Stati Uniti, di contro, si erano fermate ad appena 435.000 barili giornalieri.
La svalutazione dei rapporti commerciali tra Washington e Riad è andata a sovrapporsi all’inasprimento delle tensioni politiche, ascrivibile soprattutto all’intesa sul nucleare iraniano patrocinata dall’amministrazione Obama e al più recente, sconcertante abbandono dell’Afghanistan da parte delle forze armate Usa disposto da Biden. La cifra del deterioramento subito dalla storica relazione bilaterale si ricava dal mancato allineamento dell’Arabia Saudita alle posizioni assunte dagli Usa in materia di politica petrolifera nell’autunno 2022. Allora, per placare il risentimento popolare sorto per effetto delle vigorose fiammate inflattive che si registravano sul fronte domestico, l’amministrazione Biden esercitò forti pressioni su Riad per indurre i governo saudita ad appoggiare un aumento della produzione in sede Opec+. Si trattava di una mossa necessaria sia ad alleggerire le pressioni sulle riserve strategiche Usa, a cui Washington aveva attinto per immettere petrolio sul mercato in modo da abbassare i prezzi, sia a ridurre il volume di entrate per la Russia intaccando la capacità del Cremlino di continuare a sostenere lo sforzo bellico in Ucraina.
Per tutta risposta, i sauditi confermarono formalmente i propri intendimenti originari, esprimendosi a favore di un taglio della produzione pari a due milioni di barili al giorno di concerto con la Russia, provocando così un forte rialzo del prezzo del petrolio. I membri della Camera dei rappresentanti Tom Malinowski, Sean Casten e Susan Wild parlarono senza mezzi termini di «atto ostile, e di un chiaro segnale che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno scelto di appoggiare la Russia nella sua guerra contro l’Ucraina», mentre il Ministero del Petrolio saudita affermò seccamente che la decisione era solo ed esclusivamente frutto di valutazioni rivolte alla tutela dell’interesse nazionale.
Nel corso della primavera successiva, l’Opec+ ha proclamato un ulteriore taglio della produzione petrolifera pari ad oltre un milione di barili al giorno, contravvenendo all’impegno di mantenere costante l’offerta per stabilizzare il mercato che era stato assunto ufficiosamente in precedenza conformemente alle raccomandazioni degli Stati Uniti. A guidare il processo sono proprio l’Arabia Saudita e la Russia, con una riduzione su scala quotidiana quantificabile in 500.000 barili ciascuno, mentre gli altri Paesi membri dell’Opec+ come gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, l’Algeria, il Kazakistan e l’Oman hanno attuato tagli più contenuti.
Il rialzo immediato della quotazione internazionale del greggio che ne è scaturito ha indotto il quotidiano cinese «Global Times» a definire la mossa inaspettata dall’Opec+ non soltanto «una bomba per il mercato», ma anche «un “pugno nello stomaco” per l’egemonia Usa in un contesto di profondi cambiamenti nel panorama geopolitico globale, con particolare riferimento all’Asia». Il taglio della produzione annunciato – e poi ulteriormente inasprito – dall’organizzazione che riunisce i Paesi produttori di petrolio ha infatti messo a dura prova la disponibilità dei Paesi membri dell’“Occidente collettivo” a tener fede al tetto al prezzo del petrolio a 60 dollari per barile imposto contro la Russia.
L’Arabia Saudita sta quindi venendo a configurarsi come una sfida particolarmente insidiosa per gli Stati Uniti. Lo ha rilevato anche il «Wall Street Journal», secondo cui: «il taglio della produzione rappresenta il segnale più chiaro che i sauditi faranno tutto il necessario per mantenere i prezzi del petrolio a livelli che li avvantaggiano. Il principe Mohammed bin-Salman sta attuando quella che gli analisti definiscono una politica economica “Saudi First” volta a dare priorità agli interessi nazionali in un momento di crescente incertezza riguardo all’impegno degli Stati Uniti a difendere gli alleati mediorientali […]. Mohammed ha confidato a persone a lui vicine che non è più interessato a compiacere gli Stati Uniti, affermando che pretende una congrua contropartita in cambio a tutto ciò che offre a Washington».
Stando alle rivelazioni fornite dal «Washington Post» sulla base di documenti riservati trasmessi da fonti di intelligence, il principe saudita si sarebbe spinto addirittura oltre, minacciando di imporre costi economici estremamente significativi e perfino di alterare radicalmente la natura della relazione con gli Stati Uniti qualora il governo di Washington perpetrasse rappresaglie contro il suo Paese per punirlo della sua politica “non allineata”.
Nel cui ambito rientra anche il riorientamento dei flussi di capitale sauditi, stornati gradualmente dal mercato Treasury Bond ai pacchetti azionari di Wall Street, quanto non indirizzati al finanziamento degli ambiziosissimi progetti di sviluppo domestico – Vision 2030 e Neom – e/o canalizzati verso destinazioni alternative a quella costituita dagli Stati Uniti. Nei confronti dei quali, come riconosciuto apertamente dallo stesso principe Mohammed bin-Salman a dispetto dei tentativi di Washington di barattare un – quantomeno parziale – ridimensionamento della partnership strategica che Riad va costruendo con Pechino con concessioni legate alla questione israelo-palestinese e al sostegno del programma nucleare saudita, si registra già da tempo un interesse calante e sostanzialmente condiviso dagli altri membri del Gcc.
Benché, come sottolinea l’International Institute for Strategic Studies, «le barriere economiche e politiche alla dedollarizzazione del Golfo Persico rimangano significative», la penisola araba nel suo complesso ha manifestato una crescente propensione a relazionarsi con la Cina, che attraverso la “cooperazione energetica multidimensionale” menzionata da Xi Jinping si è impegnata a investire concretamente nello sviluppo economico della regione (energie rinnovabili, telecomunicazioni, cloud computing, opere ingegneristiche di varia natura, eccetera) favorendo l’integrazione del progetto della Belt and Road Initiative con il programma di sviluppo saudita Vision 2030. Un aspetto di particolare rilievo che emerge dalla dichiarazione di Xi riguarda l’adozione dello Shangai Petroleum and Natural Gas Exchange come principale strumento di regolazione del commercio tra Cina e Gcc in yuan-renminbi «nell’arco dei prossimi cinque anni», alla luce dei volumi fortemente accresciuti di petrolio e Gnl che Pechino ha pianificato di acquistare dall’Arabia Saudita e dagli altri membri dell’organizzazione. A loro volta, le nazioni inquadrate nel Gcc potranno accumulare gli yuan-renminbi ottenuti per il pagamento delle forniture energetiche nelle proprie riserve valutarie, reinvestirli in Cina o convertirli in oro presso lo Shangai Gold Exchange o l’Hong Kong Gold Exchange.
Il governo di Riad, dal canto suo, ha fornito una sostanziale conferma alle esternazioni rese da Xi durante il vertice Cina-Gcc, dichiarandosi pubblicamente disponibile a commerciare il proprio petrolio in valute alternative al dollaro, a partire dallo yuan-renminbi, subito dopo aver riservato al leader cinese un’accoglienza letteralmente trionfale in Arabia Saudita. La quale ha dissodato il terreno per il raggiungimento di un’intesa tra la China EximBank e la Saudi National Bank, il principale istituto di credito saudita, per l’emissione di un’obbligazione denominata in yuan-renminbi finalizzata ad agevolare la cooperazione finanziaria tra i due Paesi nell’ambito della Belt and Road Initiative. Allo stesso tempo, la Saudi Aramco ha versato 3,6 miliardi di dollari per acquisire il 10 per cento dell’azienda petrolchimica cinese Rongsheng Petrochemical e costituito una joint-venture sino-saudita con Panjin Xincheng Industrial Group finalizzata alla realizzazione di un impianto petrolchimico e di una raffineria nella provincia di Liaoning. Scopa, società saudita operante nel settore della Difesa, ha invece chiuso la propria filiale statunitense, interrompendo lo storico rapporto di collaborazione con il “complesso militar-industriale” Usa per siglare nuove partnership con imprese militari cinesi e russe.
A pochi mesi di distanza, Riad e Pechino hanno concluso accordi commerciali per un controvalore di 10 miliardi di dollari, metà circa dei quali (5,6 miliardi) assorbita da una joint-venture tra il Ministero degli Investimenti saudita e il produttore cinese di auto elettriche Human Horizons in materia di collaborazione finalizzata allo sviluppo, alla produzione e alla commercializzazione dei veicoli. Le intese sono state raggiunte in occasione di una conferenza arabo-cinese tenutasi presso la capitale saudita, nel corso della quale il ministro degli investimenti del regno Khalid al-Falih ha dichiarato che «l’ordine globale multipolare è già emerso, e la Cina ne rappresenta un soggetto importante […] così come l’Arabia Saudita. Faremo la nostra parte, puntando sullo modernizzazione della nostra economia e della nostra regione, e cogliendo le opportunità di sviluppo in Africa, Asia centrale e subcontinente indiano. Siamo convinti che la cooperazione economica tra Cina, Arabia Saudita, Gulf Cooperation Council e regione araba nel suo complesso renderà questo obiettivo pienamente conseguibile».
Secondo un’analisi di «Bloomberg», gli investimenti delle società del Golfo Persico sarebbero aumentati su base annua di oltre il 1.000 per cento, toccando quota 5,3 miliardi di dollari. Nello specifico, «Mubadala Investment Corporation, il fondo sovrano da 280 miliardi di dollari di Abu Dhabi, sta intensificando le operazioni in Cina […]. Dubai ha registrato un incremento del 24% degli insediamenti presso la propria zona franca di materie prime da parte di aziende cinesi. I funzionari di Riad qualificano la Cina come un partner indispensabile per la realizzazione del programma Vision 2030, il piano di trasformazione economica e sociale multimiliardario concepito dal principe ereditario Mohammed bin-Salman. Una serie di aziende cinesi ha vinto contratti per la città futuristica Neom».