Le 3 picconate con cui Paolo Savona ha demolito la narrazione neo-liberista degli ultimi 40 anni

Le 3 picconate con cui Paolo Savona ha demolito la narrazione neo-liberista degli ultimi 40 anni

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di Claudio Conti - Contropiano
 

La cosa più interessante che avviene durante le crisi sistemiche è il rovesciamento delle posizioni nella testa dei “decisori”. In particolare, in questi mesi, tutti i campioni del neoliberismo sono diventati improvvisamente keynesiani. Magari senza neanche pensarci…
 

Paolo Savona, oggi presidente della Consob – autorità di controllo della Borsa – è uno di questi, probabilmente uno dei più acuti. Uno che ha cominciato la carriera nell’Ufficio Studi della Banca d’Italia, poi al Mit di Boston, quindi direttore di Confindustria – quando Agnelli volle alla presidenza Guido Carli, ex governatore di Bankitalia – a lungo al fianco di Ugo La Malfa e lui stesso iscritto al Partito Repubblicano.
 

Un “tecnico” con idee politiche di centrodestra, insomma, tanto da esser proposto come ministro del tesoro nel primo governo Conte e poi dirottato agli Affari Europei per l’opposizione di Mattarella.
 

Il suo discorso di ieri, l’annuale “messaggio al mercato”, è stato notevole per temi trattati e soluzioni proposte. Tutte rigorosamente “non convenzionali” rispetto allo sciocchezzaio neoliberale che trasuda dalle riunioni dell’Unione Europea o dai media mainstrem nostrani.
 

Prima picconata alla “narrazione neoliberista-europeista”: «a fine 2019 le famiglie italiane disponevano di una ricchezza immobiliare, monetaria e finanziaria, al netto dell’indebitamento, pari a 8,1 volte il loro reddito disponibile, di cui il 3,7 volte in forma di attività finanziarie, per un ammontare di 4.445 miliardi di euro. Gli italiani sono tutt’altro che cicale, come una distorta pubblicistica tende a sostenere, mentre sono formiche che lavorano per sostenere molte cicale estere, anche quelle di paesi che hanno un ben differente rilievo economico, come il Canada, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Belgio, la Francia e la gran parte dei paesi sudamericani. Ciò è valido guardando sia alle consistenze, sia ai flussi annuali di risparmio dei paesi citati».
 

Ideologia zero, solo numeri. Flussi di capitale alla mano, i “risparmiatori italiani” (categoria bugiarda perché onnicomprensiva, che abbraccia chi ha 10 euro sul conto e chi maneggia milioni spostandoli da un mercato all’altro) sostengono le economie e i mercati altrui. Perché conviene economicamente ed è legale farlo (c’è la libera circolazione, per merci e capitali).
 

Questo ovviamente va a discapito del Paese e delle finanze pubbliche, anche al di là della ciclopica evasione fiscale, perché rende la ricerca di capitali sui “mercati” estremamente onerosa.
 

In ogni caso, però, non siamo “un Paese povero che deve chiedere soldi agli altri”, semmai un Paese che non utilizza per sé le risorse che ha.
 

E qui il discorso va a quei 4.445 miliardi di euro – quasi tre volte il Pil – che costituiscono l’oggetto del desiderio per le istituzioni finanziarie straniere o il “rovello” dei decisori che si chiedono come “mobilizzarli” e trasformarli in investimenti produttivi. Altro che recovery fund e Mes a condizioni capestro…
 

Seconda picconata “propositiva”. I bond perpetui, o “obbligazioni irredimibili” (consols). Sono – o sarebbero – titoli pubblici senza scadenza, che garantiscono una cedola fissa esentasse, “uno strumento tipico delle fasi belliche, alle quali la vicenda sanitaria è stata sovente paragonata” ha detto Savona.
 

In pratica, lo Stato emette titoli pluridecennali, che non danno diritto alla restituzione del capitale versato, ma solo agli interessi annuali. La semplificazione, per il debito pubblico è ovvia: non c’è più (o diminuisce molto) la necessità di “rifinanziare il debito”, ossia di emettere nuovi titoli per pagare la restituzione di quelli in scadenza. Con ovvio risparmio sugli interessi (meno devi chiedere, meno devi promettere).
 

Naturalmente questa soluzione tutta finanziaria ha senso solo se contemporaneamente si punta ad “agevolare la formazione di capitale di rischio in sostituzione dell’indebitamento”, ricreando quindi quel “circolo virtuoso” che fa crescere la produzione di ricchezza.
 

La sottoscrizione di obbligazioni irredimibili, ha precisato Savona, “sarebbe ovviamente volontaria e l’offerta quantitativamente aperta”.
 

Non è una pensata scandalosa, perché “In altri paesi le emissioni di consols sono state seriamente discusse e forme simili attuate, ma nessun esperimento pratico di questo tipo è stato tentato. Se i cittadini italiani non sottoscrivessero questi titoli, concorrerebbero a determinare decisioni che, ignorando gli effetti di lungo periodo di un maggiore indebitamento pubblico, creerebbero le condizioni per una maggiore imposizione fiscale. Emettere titoli irredimibili sarebbe quindi una scelta dai contenuti democratici più significativi perché, se sottoscritti, limiterebbero i rischi per il futuro del Paese e, di conseguenza, gli oneri sulle generazioni future, quelle già in formazione e quelle che verranno”.
 

In pratica, sarebbe un referendum intorno alla domanda: preferite pagare più tasse per ripagare un debito che cresce o comprare titoli che vi garantiscono una cedola annuale, magari non grande, ma per tutta la vita (vostra e dei figli)? Rispondetevi da soli…
 

Terza picconata. “La crisi finanziaria globale del 2008 ha imposto una creazione di moneta più ampia e una regolamentazione della finanza più rigida, non guidate però da una visione di una nuova architettura istituzionale adatta alla realtà che si andava delineando. Con la crisi scatenata dalla pandemia questa architettura non regge più.
 

Anzi rischia di esplodere con l’eventualità che grandi paesi possano creare criptovalute di Stato.
 

Alcuni Paesi come la Cina e la Russia, forti di loro autonomi protocolli, intendono realizzarla nell’intento sia di avvantaggiarsene a scopi di riequilibrio geopolitico economico, sia di proteggersi dagli effetti sgraditi, quali la perdita di controllo delle informazioni nazionali, e da quelli graditi, come l’impossessamento di quelle dei paesi concorrenti. Perciò, le relazioni internazionali, invece di convergere verso una soluzione comune, tendono a complicarsi ulteriormente”.
 

La criptovaluta così diventa un crossover tra moneta e metadati, con intrecci e conseguenze difficilmente immaginabili. Ma ha indubbiamente molti vantaggi, tanto da costringere Savona a consigliarne la creazione anche all’Italia.
 

Il sistema dei pagamenti si muoverebbe in modo indipendente dalla gestione del risparmio, che affluirebbe interamente sul mercato libero, cessando la simbiosi tra moneta e prodotti finanziari, affidandone la gestione in modo indipendente ai metodi messi a punto dai registri contabili decentrati e dalla Scienza dei dati”.
 

Da un lato, quindi, la moneta propriamente detta, che serve per i normali pagamenti a tutti i livelli. Dall’altra i mercati finanziari, che possono attrarre o no il risparmio privato.
 

Ma così si interrompe quel circuito perverso per cui, come sta accadendo da decenni, le risorse pubbliche devono correre in soccorso dei fallimenti di mercato creando appositamente nuova moneta (con i rischi di innescare processi infalzionistici fuori controllo). Un meccanismo che finisce per retroagire negativamente anche sul “sistema dei pagamenti”, provocando per esempio un collasso della domanda.
 

Perché sarebbe necessario che ogni Paese si doti di una criptomoneta? Perché questa non rientra in nessun accordo internazionale e dunque, se alcuni grandi soggetti statuali come la Cina o altri, comincia ad usarla si verrebbero a creare due diversi regimi monetari. 
 

Il primo dovrebbe condurre a una netta distinzione tra moneta e finanza, realizzando il sogno di Hyman Minsky (un keynesiano fortemente di sinistra, che ha insegnato anche in Italia, NdR) di porre fine alla moneta come serva di due padroni, la stabilità dei prezzi e la stabilità bancaria, resa oggi possibile dalle tecnologie dei registri decentrati. L’attuazione richiede di dotare il sistema dei pagamenti di una criptomoneta pubblica o – nell’impossibilità di superare gli egoismi nazionali che affossarono il bancor di Keynes – di poche monete nazionali criptate legate da regole di cambio uguali per tutti; queste mancano nello Statuto del Wto. Non è quindi solo un problema legato alla distinzione tra moneta e prodotti finanziari, sulla quale sembra concentrarsi l’attenzione dei regolatori, ma di individuazione dei compiti delle istituzioni.
 

Traduciamo in parole semplici: l’architettura monetaria che ha retto il mondo da Bretton Woods ad oggi, basata sempre sulla centralità del dollaro ma senza più un legame con l’oro (gold exchange standard) fin dall’agosto 1971, è già saltata di fatto. Si tratta di cominciare a creare un’altra archittura prima che crolli il dollaro seminando morte e distruzione sui mercati e nella via di quasi tutti i Paesi.
 

Il secondo regime infatti manterrebbe le caratteristiche prevalenti di quello esistente, ma la sua regolazione presenterebbe maggiori complicazioni perché conviverebbero i vecchi e i nuovi strumenti monetari e finanziari, insieme ai vecchi e nuovi metodi di loro gestione. La maggior parte dei Governi sembrerebbe non voler procedere verso la creazione di una propria criptomoneta, né intendono farlo congiuntamente”.
 

Ragionamenti e consigli che, come visto, arrivano alle conclusioni più “estreme” di una certa tradizione keynesiana.
 

La cosa interessante, dal nostro punto di osservazione, non è se siano praticabili oppure no nelle condizioni date (c’è pur sempre “l’impossibilità di superare gli egoismi nazionali, anche dentro l’Unione Europea, in base ai rapporti di forza).
 

La cosa più interessante è infatti che le menti più fini del sistema capitalistico siano obbligate dalla dimensione e forza della crisi ad immaginare soluzioni che portano fuori dal sistema neoliberista dominante da 40 anni. E in qualche misura persino oltre il sistema capitalistico stesso, nel tentativo ovviamente di conservarlo…

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