Le sanzioni contro Sputnik ed RT: il punto di non ritorno del totalitarismo liberale

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Le sanzioni contro Sputnik ed RT: il punto di non ritorno del totalitarismo liberale

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di Clara Statello per l'AntiDiplomatico


La guerra contro RT e Sputnik è approdata negli USA ed è diventata un vero e proprio strumento di propaganda nella campagna elettorale statunitense. L’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro USA mercoledì scorso ha introdotto sanzioni contro il gruppo mediatico di Rossiya Segodnya, RT, Sputnik, Ria Novosti e Ruptly oltre a dieci giornalisti collegati a queste agenzie tra cui la caporedattrice Margherita Simonyan. 

Il provvedimento è senza precedenti: le libertà di parola ed espressione, garantite dal primo emendamento, sono le fondamenta dell’idea stessa di “America” come nazione di individui liberi, la pretesa della sua eccezionalità, della sua missione liberatrice e dunque del suo primato geopolitico come Paese alla guida del cosiddetto “mondo libero”.  La libertà di stampa è un dogma inviolabile per gli “americani”. O almeno lo è stato fino a mercoledì 4 settembre. 

La censura è mascherata da “risposta coordinata del governo degli Stati Uniti agli sforzi di influenza maligna di Mosca”sulle elezioni presidenziali del 2024. Nel documento si parla dell’utilizzo di deep fake, intelligenza artificiale, bot, siti Web proxy russi, dietro i quali si nasconderebbero il Cremlino e i suoi servizi segreti, nel tentativo di condizionare l’opinione degli ingenui cittadini statunitensi. 

La strategia di Mosca sarebbe quella di diffondere fake news per destabilizzare la società statunitense, minando la fiducia nei processi e nelle istituzioni elettorali. Insomma il Tesoro scarica il conflitto sociale, che da anni dilania gli USA, sul nemico di sempre, la Russia. Il crescente malessere sociale, la crescente polarizzazione politica, la crescente violenza pubblica sono il prodotto di un malvagio complotto ordito dagli agenti di Putin. A mali estremi, estremi rimedi: da qui la censura e la persecuzione dei giornalisti non allineati.
Nel comunicato sono menzionati anche “ignari influencer americani” reclutati da RT a sostegno della “campagna di influenza maligna”. Il riferimento chiaramente è a Scott Ritter, ex ispettore per le armi Onu in Iraq e funzionario dell’intelligence Usa. Certamente non uno sprovveduto. Il suo domicilio era stata perquisito lo scorso 8 agosto proprio per la sua collaborazione con RT. 




Senza entrare nel merito delle accuse dell’OFAC, non si può non notare che il provvedimento sanzionatorio è sorretto dalla narrazione dei democratici, secondo cui Donald Trump avrebbe vinto le elezioni contro Hillary Clinton nel 2016, grazie all’influenza maligna di Mosca. 

Oggi come allora il Cremlino cospira segretamente per sbarrare la strada della Casa Bianca a Kamala Harris. Impegna i suoi potenti mezzi - quali troll, fake news e i sempreverdi 007 – per il trionfo di Donald Trump, il presidente tanto amico di Putin da aver portato gli USA fuori dall’INF, disposto sanzioni antirusse, colpito i governi vicini a Mosca in America Latina, armato l’Ucraina fino ai denti e che più di tutti si oppone al progetto russo-cinese dell’ordine multipolare. 

In parole povere, il senso politico delle sanzioni è quello di associare l’eventuale vittoria repubblicana all’azione malevola della Russia. Questa narrazione naturalmente mobilita l’elettorato. Perciò il provvedimento va visto come una mossa propagandistica dell’amministrazione Biden nel mezzo di una ferocissima campagna elettorale, durante la quale un candidato ha subito un tentato omicidio e l’altro è stato costretto subito dopo a ritirarsi dalla corsa. 

Vladimir Putin ha indirettamente risposto dal forum di Vladivostok con un endorsement a Kamala Harris. Ironicamente si intende. L’esito delle presidenziali, qualunque esso sia, non porrà fine alla contrapposizione fra le due potenze né sarà risolutivo per la guerra in Ucraina. 





Tuttavia c’è un altro aspetto da considerare. Ammesso che la Russia stia davvero giocando le sue carte, per far valere il suo peso oltreoceano, questo sarebbe un crimine? Gli USA non hanno forse interferito n-volte negli affari interni di altri Stati, cercando di destabilizzare i governi, posizionare i propri referenti, determinare esiti elettorali? 

Esattamente 8 anni fa, l’ambasciatore statunitense in Italia John Philips intervenne nella campagna referendaria in Italia, per sostenere la riforma costituzionale Boschi-Renzi. 
“Se vince il NO sarebbe un passo indietro”, intimò lasciando intendere uno stop agli investimenti stranieri nel nostro Paese. Le sue parole vennero rafforzate dal parere di Fitch che prevedeva “uno choc per l’economia” in caso di bocciatura del quesito con rischi sul rating italiano.

Ad altre latitudini le ingerenze sono state anche più sfacciate. Basta ricordare gli interventi di Mike Pence a sostegno di Juan Guaidó e dei “ribelli” venezuelani contro il presidente Maduro, da lui definito un dittatore. In diversi video del 2019 appare incitando alla rivolta, al rovesciamento del governo o mentre chiede alla comunità internazionale di riconoscere Guaidó come legittimo presidente. Un copione simile si è ripetuto alle scorse presidenziali di fine luglio, quando la Casa Bianca ha proclamato Edmundo Gonzalez vincitore delle elezioni e nuovo presidente del Venezuela. 

In Sicilia esiste un proverbio che recita “u lupu di mala cuscienza tali opera comu pensa”, ovvero una persona abituata ad azioni malevole pensa che tutti gli altri agiscano come lui. Non potrebbero essere usate parole migliori per commentare le accuse di diffusione delle fake news che Washington rivolge alla Russia. Diffondere campagne di disinformazione è ciò che gli USA (e non solo loro) hanno sempre fatto in politica estera, per influenzare l’opinione pubblica di altri Paesi sovrani. 

Recentemente Reuters ha svelato che in piena pandemia il Pentagono ha condotto una fitta campagna di disinformazione per screditare il vaccino cinese nei Paesi asiatici, in particolare nelle Filippine. Attraverso account Internet fasulli, a partire dal 2020 l' esercito statunitense ha lanciato una campagna per screditare l’impegno cinese nella lotta al Covid, con post sui social media che criticavano la qualità delle mascherine, dei kit per i test e poi del vaccino cinese Sinovac, il primo disponibile nelle Filippine.

Reuters ha identificato almeno 300 account su X, ex Twitter, che corrispondevano alle descrizioni condivise da ex ufficiali militari statunitensi che avevano familiarità con l'operazione nelle Filippine. Quasi tutti erano stati creati nell’estate del 2020 e incentrati sullo slogan la “Cina è il virus” #Chinavirus.

Dopo la rimozione degli account, X ha confermato che si trattava di bot collegati alla Difesa USA. La campagna per screditare la Cina si è estesa oltre il sud-est asiatico. La disinformazione è stata adattata al target locale, il pubblico musulmano dell’Asia centrale e del Medio Oriente. Per terrorizzare gli islamici il Pentagono ha diffuso la fake news che il vaccino cinese conteneva gelatina di maiale, in violazione dei precetti religiosi.

"Non stavamo guardando la situazione dal punto di vista della salute pubblica", ha dichiarato un alto ufficiale militare coinvolto nel programma. “Stavamo cercando di trascinare la Cina nel fango”.


La campagna è stata avviata da Trump, ma è continuata anche sotto Biden. 

Non solo gli USA hanno utilizzato la disinformazione per favorire la propria posizione geopolitica. Israele ha investito 2 milioni in una campagna social per generare consenso sulla guerra tra i politici e l’opinione pubblica Usa, attraverso ChatGPT e account falsi. Per l’operazione è stata ingaggiata la Stoic, società israeliana di marketing pubblico. Centinaia di account falsi e bot su X e Meta diffondevano false notizie pubblicate su 3 siti di fake news in lingua inglese come Non-Agenda e UnFold Magazine, creati appositamente per questo scopo. La campagna era stata commissionata dal Ministero della Diaspora, che collega gli ebrei di tutto il mondo con Tel Aviv. I destinatari erano alcuni membri del Congresso e gli utenti dei social. È stata condotta anche una campagna di reclutamento dei “soldati digitali” di Israele. 

Nessuno ha imposto sanzioni contro il Pentagono o il ministero di Tel Aviv, nessuno ha urlato al pericolo eversivo delle fake news. La ragione è molto semplice. 

È passato il concetto che la libertà di stampa vada tutelata con la lotta alle fake news. 

“Ogni atto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo contro la Repubblica”, ha affermato il presidente Sergio Mattarella lo scorso luglio. 
Siamo dunque scivolati nel paradosso orwelliano: la censura è libertà. Ma chi stabilisce l’attendibilità di una notizia? Una notizia è vera o falsa o “contesto mancante” se favorisce o meno la narrazione Occidentale, ovvero la visione di Washington. Sputnik, RT, Ria Novosti, ma anche TV come Telesur sono censurati non perché pubblicano false notizie, ma perché diffondono narrazioni nemiche della narrazione imperialista, ovvero il punto di vista di governi e popoli che non si sottomettono all’ordine liberale, il cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (stabilite dagli USA).

Washington e Bruxelles non vogliono fermare la disinformazione, vogliono fermare una visione alternativa del mondo, la visione di un nuovo mondo possibile, un mondo multipolare in cui tutti gli Stati e tutti i popoli hanno lo stesso peso, la stessa voce, la stessa dignità. La messa al bando delle agenzie russe è la messa al bando della capacità stessa di concepire nuove alternative. E’ un punto di non ritorno verso il totalitarismo liberale.   

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