L’IMPERIALISMO DEL XXI SECOLO E LO SCAMBIO INEGUALE TRA NORD E SUD GLOBALE  

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L’IMPERIALISMO DEL XXI SECOLO E LO SCAMBIO INEGUALE TRA NORD E SUD GLOBALE  


di Domenico Moro

 

L’imperialismo fino alla decolonizzazione, avvenuta a partire dalla metà del XX secolo, si basava sul possesso e sullo sfruttamento diretto delle colonie. L’imperialismo attuale si basa invece sullo sfruttamento attraverso lo “scambio ineguale” tra paesi centrali o “core” e paesi periferici e semiperiferici. Questi ultimi rappresentano, secondo un’altra definizione, il Sud globale mentre i primi rappresentano il Nord globale. Fanno parte del Nord i paesi che, secondo la classificazione del Fondo monetario internazionale, sono definiti avanzati, in particolare il Nord America, l’Europa occidentale e il Giappone, e del Sud i cosiddetti paesi in via di sviluppo e quelli emergenti.

Lo scambio ineguale

Secondo alcuni economisti, tra cui Arghiri Emmanuel e Samir Amin, lo scambio ineguale si fonda sul drenaggio di ricchezza dal Sud al Nord, attraverso la notevole differenza esistente tra i salari, che nel Sud sono enormemente più bassi che nel Nord. La teoria dello scambio ineguale prende spunto dalla teoria del valore marxiana. Secondo Marx, il prezzo di una merce corrisponde al valore della medesima. Il valore di una merce, a sua volta, è costituito dal tempo di lavoro socialmente necessario alla sua produzione. “Socialmente necessario” significa che è il tempo necessario alla produzione della merce in determinate condizioni storiche, cioè dato un certo livello tecnologico medio. Accade, però, nella concorrenza capitalistica che un imprenditore, attraverso innovazioni tecnologiche, riesca a ridurre il suo tempo di lavoro necessario, pur continuando a vendere la sua merce allo stesso prezzo degli altri. In questo modo, la merce viene venduta a un prezzo più alto del suo valore e l’imprenditore in questione aumenta il suo profitto, realizzando un “sovrapprofitto”, superiore al profitto medio del settore.

Il concetto di sovrapprofitto, legato alla mancata rispondenza tra valore e prezzo, ricopre una importanza fondamentale nella spiegazione dello scambio ineguale, basato sui sovrapprofitti realizzati dalle multinazionali del Nord. Ma da dove deriva questo sovrapprofitto? Secondo Bettelheim e Palloix, le economie del Nord traevano vantaggio dallo stesso meccanismo descritto da Marx a proposito dell’imprenditore che introduce una innovazione tecnologica. Infatti, le economie del Nord avevano una maggiore produttività collegata a una più alta composizione organica del capitale, cioè a una maggiore incidenza di macchine e tecnologia sul capitale totale, rispetto alle economie del Sud. Dunque, le economie del Nord potevano vendere le merci alle economie del Sud a un prezzo superiore al loro valore.

Tale interpretazione fu, però, criticata da Emmanuel e Amin, secondo i quali lo scambio ineguale andava ricondotto primariamente non a una differente composizione organica del capitale ma all’esistenza nel Sud di salari molto più bassi di quelli del Nord. Infatti, i livelli di produttività del Nord e del Sud si sono avvicinati, anche perché le multinazionali del Nord hanno introdotto nel Sud le tecnologie di produzione avanzate attraverso gli investimenti diretti esteri (Ide). Ad esempio, nel corso degli ultimi anni in Messico, nel settore manifatturiero di esportazione, la produttività si è allineata a quella degli Usa, ma le differenze salariali si sono ampliate a sfavore del Messico[i]. Aumentando la produttività ma rimanendo bassi i salari, il valore e quindi il prezzo delle merci prodotte nel Sud si abbassa, al contrario nel Nord quando aumenta la produttività aumentano anche i salari. In questo modo, i vantaggi dell’accresciuta produttività sono esportati dai paesi periferici e appropriati da quelli centrali[ii]. Si ha così uno scambio ineguale perché i paesi periferici esportano più valore (tempo di lavoro) di quello che importano dal centro.

Dunque, “il problema dello scambio ineguale è un problema di trasferimento di ricchezza mediante il meccanismo dei prezzi”[iii]. Infatti, la base dell’asimmetria globale nello scambio ineguale risiede nel fatto che i prezzi di vendita delle merci sono uniformati a livello internazionale nel mercato globale, malgrado il costo del lavoro differisca enormemente tra Nord e Sud globale. Il sovrapprofitto deriva dal fatto che è possibile comprare forza lavoro in un paese dove il suo prezzo medio (salario) è inferiore a quello del paese dove le merci sono vendute. In pratica lo scambio ineguale accade perché al Sud i lavoratori ricevono un prezzo per la loro forza lavoro che è inferiore al suo valore, cioè al lavoro socialmente necessario alla riproduzione della stessa forza lavoro a livello globale, mentre le merci da loro prodotte vengono vendute sui mercati del Nord a un prezzo uguale o leggermente inferiore a quello a cui sarebbero vendute se i salari di chi le produce fossero uguali a quelli del Nord.

Come abbiamo già detto, il centro della teoria dello scambio ineguale è il concetto di valore. In base a questo concetto si suppone l’esistenza di un valore globale del lavoro, da un lato, e, dall’altro lato, un capitalismo storico che ha polarizzato il sistema mondiale in un centro e in una periferia con un corrispondente livello salariale alto e uno basso. Questa differenza nel prezzo del lavoro comporta un trasferimento di valore, nascosto nella struttura del prezzo, quando le merci sono scambiate tra il centro e la periferia del sistema mondiale. Il punto centrale non è lo scambio delle merci tra centro e periferia, ma la differenza tra il valore globale del lavoro e i differenti prezzi della forza lavoro[iv].

Quindi, attraverso la compressione dei salari del Sud, si determina un aumento dello sfruttamento e quindi del plusvalore estratto che finisce per essere appropriato in buona parte dalle multinazionali dei paesi del Nord, che controllano le catene globali di produzione. Per questa ragione, “…lo scambio ineguale tra il Nord globale e il Sud globale, sotto la tutela delle transnazionali degli Usa o europee, è la spina dorsale dell’imperialismo del XXI secolo.”[v]

Il caso dello scambio ineguale tra Messico e Stati Uniti

Il Messico negli anni ’70 era divenuto il paese latino-americano più avanzato attraverso una politica di “sostituzione” industriale, cioè attraverso la sostituzione di quanto solitamente veniva importato dall’estero con una produzione interna. Negli anni ’80, il paese venne, però, investito dalle politiche neoliberiste, che ne riconfigurarono l’economia, abbassando i salari e trasformandolo in una piattaforma produttiva orientata all’esportazione verso il mercato statunitense. Sempre negli anni ’80 la crisi portò a un trasferimento massiccio di posti di lavoro dagli Usa in Messico, accentuato da una legge sugli investimenti esteri che dava carta bianca alle multinazionali straniere e da una controriforma agraria, che, distruggendo la proprietà sociale, produsse un enorme massa di contadini disoccupati che migrò verso le città industrializzate del Nord del Messico, per lavorare nelle maquiladoras, o direttamente negli Usa. Infine, la ristrutturazione si intensificò quando fu implementato il Nafta, il trattato di libero scambio tra Usa, Messico e Canada. In questo modo il Messico diventò il paese dell’America Latina con i costi del lavoro più bassi e contemporaneamente il maggiore fornitore di prodotti manifatturieri per il mercato statunitense. In particolare, il Messico è divenuto una enorme enclave di manifattura automobilistica, dedicata a esportare veicoli finiti e parti di automobili negli Usa.

Le relazioni commerciali tra Messico e Usa hanno alla loro base le enormi differenze salariali. Tuttavia, le analisi che si concentrano sul prezzo della forza lavoro e non comprendono la differenza tra prezzo e valore non riescono a cogliere l’enorme ammontare del tempo di lavoro non pagato che viene drenato dal Messico agli Usa. I beni manufatti in Messico sono venduti negli Usa ai prezzi medi locali, mentre i salari pagati ai lavoratori messicani del settore di esportazione non corrispondono a quei prezzi ma ai salari medi messicani. In questo modo, si realizza un enorme trasferimento di valore che va a beneficio delle multinazionali statunitensi.

Per comprendere l’entità approssimativa del valore drenato dal Messico agli Usa, Mateo Crossa in un articolo su Monthly Review compara i salari ricevuti dai lavoratori messicani del settore delle esportazioni con quelli che guadagnerebbero nel caso ipotetico che i salari messicani fossero uguali a quelli degli Usa. In particolare, confronta due anni, il 2008 e il 2022. Il primo dato da sottolineare è che in questo periodo il numero dei lavoratori del settore manifatturiero di esportazione messicano è cresciuto da 1,5 milioni a 2,4 milioni, a testimonianza di come il capitale statunitense abbia reagito alla crisi del 2008 spostando la produzione in Messico per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto. Inoltre, sempre tra 2008 e 2022 la produttività dei lavoratori messicani della manifattura è aumentata del 40%, mentre il loro salario è diminuito del 25%, contraddicendo l’idea dell’economia mainstream che l’aumento della produttività comporti necessariamente l’aumento dei salari e confermando l’idea di Amin e Emmanuel che lo scambio ineguale non è prodotto da differenze di produttività ma dalle enormi differenze salariali.

Inoltre, Crossa calcola l’ammontare dei salari messicani come se fossero allineati con quelli statunitensi e sottrae a questa cifra l’ammontare dei salari effettivamente pagati. La differenza nel 2008 era pari a 44 miliardi di dollari, che nel 2022 cresceva a 128 miliardi, cifra che è pari all’11% del Pil messicano. Questo è l’ammontare in termini monetari del surplus che è stato drenato in un anno dal Messico verso gli Usa. Tale valore non è registrato nei conti nazionali messicani, malgrado sia generato in Messico, ma appare in quelli statunitensi del valore aggiunto. Trasformando questo ammontare monetario in tempo di lavoro, troveremmo che delle 2000 ore di lavoro erogate da un lavoratore messicano annualmente, i capitalisti si appropriano di 1800 ore di lavoro, che vengono a costituire il pluslavoro (ossia il tempo di lavoro in cui il lavoratore lavora gratis per l’imprenditore). Il valore che viene trasferito dal Messico agli Usa mediante lo scambio ineguale è grande tre volte il valore monetario dell’export manifatturiero messicano, cioè 128 contro 43 miliardi. I dati sarebbero ancora più impressionanti se considerassimo le esportazioni di tutte le attività economiche, a partire dall’agricoltura, dove ci sono centinaia di migliaia di lavoratori a giornata in condizioni di supersfruttamento.

Crossa conclude che non basta affermare che ci sono differenze nel costo del lavoro tra Messico e Usa, ma che bisogna dimostrare l’enorme trasferimento di tempo socialmente necessario prodotto dallo scambio ineguale. L’industria esportatrice non rende il Messico una economia più dinamica bensì una economia pesantemente sfruttata. Per quanto ci riguarda possiamo dire che lo stesso rapporto di scambio ineguale tra il settore manifatturiero dell’automotive messicano e le multinazionali Usa è replicato su scala minore nel rapporto tra il settore tessile di esportazione della Tunisia e l’Italia e la Francia. Le fabbriche tessili della Tunisia, controllate da multinazionali francesi e italiane, sono dedicate all’export in Europa, in particolare verso questi due paesi avanzati. Lo scambio ineguale, anche in questo caso, si basa su un’enorme differenza salariale, malgrado anche in Italia i salari siano rimasti fermi negli ultimi anni: in Tunisia il salario mensile lordo di un lavoratore della manifattura o non specializzato è di 902 dollari a parità di potere d’acquisto, mentre in Italia è di 4.763 dollari[vi].

 

Il rapporto tra Nord e Sud globale attraverso lo scambio ineguale

La teoria dello scambio ineguale di Emmanuel e Amin risale a un periodo compreso tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Ciononostante tale teoria è oggi molto più attuale che in quell’epoca. Infatti, mentre negli anni ’50 i prodotti industriali rappresentavano il 15% del totale delle esportazioni dei paesi periferici, già nel 2009 tale cifra era cresciuta al 70%. In questo modo, oggi il rapporto tra paesi del Sud e del Nord non si limita a uno scambio tra materie prime e prodotti tropicali del Sud contro prodotti industriali del Nord. La centralità attuale del concetto di scambio ineguale deriva anche dalla modificazione degli equilibri industriali tra Nord e Sud. Nel 1980 il numero dei lavoratori industriali del Nord e del Sud era uguale, nel 2010 c’erano 541 milioni di lavoratori nel Sud e solo 145 milioni nel Nord. In questo modo, il centro di gravità della produzione industriale si è spostato al Sud, mentre i salari continuano a essere più alti al Nord, dove si concentra la maggiore capacità di consumo.

Una ulteriore conferma dell’esistenza dello scambio ineguale e della sua enorme entità sul piano mondiale viene da un importante studio di Hickel, Hambury Lemos e Barbour[vii]. Questi ricercatori hanno verificato che le economie ricche si fondano sull’appropriazione netta di lavoro e risorse dal resto del mondo attraverso lo scambio ineguale nel commercio internazionale e nelle catene globali del valore. Gli stati e le imprese multinazionali del centro utilizzano il loro potere geopolitico e commerciale per comprimere salari, prezzi e profitti del Sud globale. Le ineguaglianze di prezzo obbligano gli Stati del Sud a esportare più lavoro e risorse incorporate in beni che vanno al Nord globale allo scopo di pagare le importazioni dal Nord, rendendo possibile alle economie del Nord una appropriazione netta di valore a beneficio del capitale del Nord.

Le dinamiche di scambio ineguale si sono accentuate negli anni ’80-’90 attraverso l’imposizione da parte del Nord sul Sud di politiche neoliberiste di aggiustamento, che svalutarono le monete del Sud, tagliarono il pubblico impiego, imposero una pressione verso il basso a salari e prezzi, e ridussero gli investimenti nello sviluppo tecnologico, obbligando i paesi del Sud a dare la priorità a produzioni orientate all’export in una posizione subordinata all’interno delle catene merceologiche globali. Al contempo, le economie del Nord spostarono una parte della produzione industriale nel Sud per beneficiare dei costi di produzione e dei salari inferiori. Nello studio in questione si è impiegata una metodologia che ha permesso di verificare che le differenze salariali tra Nord e Sud non sono da imputare a differenze nella tipologia di lavoro, come il livello di competenza o il settore o la banca industriale.

Tra le conclusioni principali cui sono giunti i ricercatori c’è il fatto che nel 2021 la maggioranza del tempo di lavoro di produzione mondiale (in media il 90-91%) è stato erogato dai lavoratori del Sud che, però, in cambio hanno ricevuto solo il 21% del reddito globale. Il Nord, attraverso lo scambio ineguale, si è appropriato di 826 miliardi di ore di lavoro incorporate in merci al netto dell’interscambio commerciale. Il valore monetario di questa appropriazione di lavoro era di 16,9 trilioni di euro nel 2021, più che raddoppiato dal 1995. In altre parole, se i lavoratori del Nord avessero erogato nei loro paesi la stessa quantità di lavoro di cui il Nord si è appropriato, questa sarebbe costata in termini salariali 16,9 trilioni di euro.

Contrariamente a quanto si può pensare, l’incremento maggiore nel Sud è avvenuto nel lavoro ad alta competenza, che è passato dal 66% del totale mondiale nel 1995 al 76% nel 2021 e che totalizza più ore di lavoro (1.124 miliardi) che tutto il lavoro a bassa, media e alta competenza del Nord (971 miliardi). Tale dato dimostra che in alcuni Paesi del Sud globale, come la Cina, siano cresciute le produzioni ad alta tecnologia e quindi il fabbisogno di lavoratori ad alta competenza. Altri dati interessanti sono che i lavoratori nel Sud lavorano annualmente 466 ore più di quelli del Nord (il 26% in più) e che il tempo di lavoro per addetto al Nord, tra 1995 e 2021, è diminuito del 7%, mentre al Sud è aumentato dell’1%. Questo significa che il contributo alla crescita mondiale è stato sostenuto in modo schiacciante dai lavoratori del Sud.

La ricerca conferma l’esistenza dello scambio ineguale tra paesi del Nord e del Sud. Nel 2021 il Nord ha importato dal Sud 906 miliardi di ore di lavoro incorporate in beni e servizi in cambio di una esportazione di appena 80 miliardi di ore (una proporzione di 11 a 1). Tale scambio ineguale non è spiegato da differenze né settoriali né di livello di competenza. Ad esempio il Nord importa quattro volte lavoro ad alta competenza dal Sud più di quanto ne esporti. Dal punto di vista temporale la posizione del Sud è andata peggiorando nei confronti del Nord. Tra 1995 e 2005 il tasso di scambio è passato da 17:1 a 21:1. Durante questo periodo, le economie del Sud furono costrette ad aumentare del 24% le loro esportazioni di lavoro incorporato per poter mantenere lo stesso livello di importazioni dal Nord. Tra 2005 e 2015 la situazione del Sud migliorò, grazie principalmente alla crescita dei salari in Cina, ma dopo il 2015 le differenze tra Nord e Sud si sono stabilizzate. Sintetizzando, si può dire che il Nord consuma all’incirca due volte tanto lavoro quanto ne fornisce, grazie allo scambio diseguale.

Per quanto riguarda i salari, il divario tra centro e periferia è cresciuto tra 1995 e 2021, anno in cui i salari del Sud risultano più bassi di quelli del Nord dell’83-98% per lavori di uguale competenza e nello stesso settore. I salari del Nord sono aumentati da 12,60 euro a 24,95 euro l’ora, quelli del Sud da 0,46 euro a 1,62 euro l’ora. Infine, la quota del Pil che va ai lavoratori del Nord è in media, tra 2017 e 2021, del 54,7% e al Sud del 47,5%.

Anche in questa ricerca si sottolinea che la differenza di produttività fisica tra Nord e Sud non spiega lo scambio ineguale, visto che nelle industrie di esportazione del Sud la produzione è effettuata con tecniche moderne, fornite dal capitale internazionale, e che i lavoratori di queste industrie producono tanto o più output fisico delle loro controparti del Nord. Infatti, le multinazionali scelgono di produrre nel Sud non solo perché i salari orari sono più bassi, ma perché sono più bassi i salari per output fisico. La delocalizzazione avviene perché la differenza salariale tra Nord e Sud è maggiore di ogni differenza di produttività fisica, anche nel caso in cui questa fosse maggiore nel Nord. Infatti, quando sussistano differenze di produttività fisica, ciò accade perché per il capitale è più profittevole usare metodi di produzione ad alta intensità di lavoro anziché ad alta intensità di capitale, proprio perché i salari sono tenuti a livelli artificialmente bassi.

La conclusione della ricerca di Hickel, Hambury Lemos e Barbour è che la persistenza della povertà globale e del sottosviluppo del Sud e la disuguaglianza tra centro e periferia sono, in larga parte, un effetto dell’appropriazione attraverso lo scambio ineguale, che è, a sua volta, un effetto dei bassi salari.

 

La crisi dell’imperialismo e lo scambio ineguale

Come ci ricorda il danese Torkil Lauesen[viii], l’ascesa della Cina ha determinato una crisi nel sistema imperialista mondiale, attraverso la riduzione per la prima volta in 150 anni dello scambio ineguale. L’aumento dei salari cinesi è stato un fattore fondamentale di questa riduzione: tra 1978 e 2018 si è passati dallo scambiare un’ora di lavoro degli Stati Uniti con 40 ore di lavoro cinesi, allo scambiare un’ora con 6,4 ore. La Cina, quindi, è passata dall’essere una fonte di trasferimento di valore all’essere un concorrente del Nord globale sul piano industriale. Inoltre, il centro del sistema mondiale non ha più il monopolio della produzione high tech industriale e sta perdendo la presa sul commercio e la finanza globali. Per mantenere la loro egemonia gli Usa stanno uccidendo la gallina delle uova d’oro, il mercato mondiale, attraverso le sanzioni e le guerre commerciali, come quelle che Trump ha intrapreso con l’introduzione di dazi contro molti stati e, in particolare, contro la Cina.

Negli anni ’70 i nuovi stati del Sud, emersi dalla decolonizzazione, tentarono di uscire dalla dipendenza dal Nord, ma non ci riuscirono perché le loro economie erano determinate da dal dominante mercato capitalistico. Oggi, invece, il declino dell’egemonia statunitense, la forza economica raggiunta da alcuni paesi del Sud e l’ascesa di un sistema multipolare aprono un “finestra di opportunità” per Stati e movimenti che intendano contrastare lo sfruttamento imperialista attraverso lo scambio ineguale. Ma gli stati singoli non possono mettere fine allo scambio ineguale, per farlo bisogna costruire un fronte antimperialista e soprattutto bisogna stabilire le condizioni globali affinché sia possibile, per gli Stati del Sud, restaurare la sovranità popolare, che era stata eliminata dalla globalizzazione.

Oltre a questo, gli stati del Sud dovrebbero ridefinire il loro modello commerciale Sud-Nord, passando a un modello basato su scambi Sud-Sud. Tra le altre cose, questi stati hanno necessità di sviluppare un loro sistema finanziario e bancario in modo da evitare di essere dipendenti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale e di adottare nuovi mezzi di pagamento internazionale per ridurre il potere del dollaro sui mercati globali. Un esempio in questo senso è offerto dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che non sono certamente una organizzazione anti-capitalista ma che possono controbilanciare la forza dell’imperialismo, rappresentato in primis dai paesi del G7 (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Italia e Giappone).

Come diceva Marx, un sistema non può essere sostituito da un altro prima che abbia dato tutto quanto poteva dare anche in termini di sviluppo delle forze produttive. Oggi, stiamo avvicinandoci a quel punto. Il capitalismo e in particolare la sua fase suprema, l’imperialismo, non è più il modo di produzione più efficace per sviluppare le forze produttive, ma è diventato una forza distruttiva globale sia a livello di società umana sia a livello ambientale. Contemporaneamente, il modo di produzione di transizione dal capitalismo al socialismo ha dimostrato di essere efficace nello sviluppo delle forze produttive. Non è un caso, infatti, che gli Usa non riescano più a competere con la Cina che sta diventando la più importante potenza economica innovatrice del mondo.


NOTE:

[i] Mateo Crossa, “Unequal value transfer from Mexico to the United States”, Monthly Review, volume 75, number 6, October 2023.

[ii] Eugenio Somaini, Arghiri Emmanuel, Luciano Boggio, Michele Salvati, Salari, sottosviluppo, imperialismo. Un dibattito sullo scambio ineguale, Einaudi editore, Torino 1973, pag. 70.

[iii] Idem, p.71.

[iv] Torkil Lauesen, “Arghiri Emmanuel and unequal exchange: past, present and future Relevance”, Monthly Review, volume 75, number 10, March 2025.

[v] Mateo Crossa, op. cit.

[vi] International Labour Organization, ILOSTAT, earnings.

[vii] Jason Hickel, Morena Hambury Lemos, Felix Barbour, Unequal Exchange of labor in the world economy, 29th July 2024. https://www.nature.com/articles/s41467-024-49687-y

[viii] Torkil Lauesen, op. cit.

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