Lo sciopero è uno strumento formidabile da usare tutti insieme
di Federico Giusti Delegato CUB
Lunedi’ 22 Settembre sciopereremo per il popolo palestinese ma anche per il futuro dei nostri figli o almeno per un mero sussulto di dignità.
A quanti chiedevano la ragione di questo sciopero abbiamo ricordato l’economia di guerra, il Riarmo della Nato e della Ue che sottrarrà risorse importanti al welfare, alla scuola e alla sanità. Lo spiegheremo meglio più avanti ma intanto soffermiamoci sulla giornata del 22 Settembre.
Confesso di avere nutrito dubbi non tanto sulla necessità di una astensione dal lavoro quanto sulla sua effettiva riuscita, possiamo asserire che l’interesse suscitato da questa giornata è andato ben oltre le più rosee previsioni stando all’interesse suscitato nei giorni precedenti in ogni luogo di lavoro.
Per essere espliciti abbiamo ascoltato lavoratori e lavoratrici che non sempre assumono posizioni avanzate ma davanti al genocidio del popolo palestinese, davanti all’economia di guerra non hanno avuto alcun dubbio e si sono mobilitati.
La prima riflessione porta a dire che i canonici percorsi talvolta non entusiasmano e coinvolgono numeri insufficienti mentre la convocazione di uno sciopero politico riceve in questa fase maggiori consensi.
Lo sciopero del 22 è una serrata motivata per ragioni non prettamente sindacali, resta tuttavia innegabile che una sua riuscita avrà ripercussioni anche sulla prossima Legge di Bilancio. All’inizio parlavamo di economia di guerra che sottrarrà risorse al welfare nonostante le innumerevoli smentite di parte Governativa. E qualunque lavoratore dovrebbe guardare con interesse alla guerra evitando di assecondarla o sostenerla con le farlocche tesi ascoltate alla televisione.
Senza avere la sfera di cristallo è bene soffermarsi su alcune questioni che riguardano il potere di acquisto e di contrattazione, la produttività e i processi di innovazione tecnologica.
In Italia hanno raccontato, spesso anche i sindacati rappresentativi, che le privatizzazioni avrebbero portato benefici alla classe lavoratrice, creato posti di lavoro e rimesso in movimento l’economia.
Se guardiamo ai salari i nostri hanno perso potere di acquisto anche quando in altri paesi UE andavano crescendo, il costo della vita è cresciuto al contrario degli stipendi e delle pensioni.
Allo stesso tempo il potere contrattuale è sceso ai minimi termini, la democrazia nei luoghi di lavoro è un optional, se provi a denunciare il mancato rispetto delle normative di sicurezza sei quasi certo di subire delle ritorsioni.
Quanto poi allo stato di salute dell’economia italiana veniamo da due anni caratterizzati da un dilagante ottimismo, a sentire certe dichiarazioni tutto andrebbe a gonfie vele
Ma con un po’ di pazienza, se leggiamo i documenti ufficiali, le analisi statistiche ed economiche all’ottimismo subentra una grande preoccupazione
A confronto con le principali economie avanzate extra-europee la crescita italiana è risibile, inferiore a quella degli Usa, del Regno Unito ma anche di molti altri paesi UE e del sud est asiatico.
Se poi guardiamo al PIL italiano la crescita è pari a un terzo di quella dei paesi menzionati, in tempi recenti e medio lunghi l’Italia è cresciuta poco e ancor meno ha innovato i propri processi tecnologici.
Se invece pensiamo agli ultimissimi anni, dal covid ai nostri giorni, la dinamica della produttività in Italia diventa stagnante (+0.2%), inferiore a quella di altri paesi, come il Giappone, alle prese con un tasso demografico veramente basso.
Se la produttività del lavoro è assai ridotta, se le lavorate, stando ai dati OCSE, subiscono la stessa sorte scopriamo che tanti dei posti di lavoro creati sono andati a una fascia di età che va dai 49 ai 59 anni, ossia quanti sono già in possesso di specializzazioni e competenze. Negli ultimi mesi anche i posti di lavoro offerti a questa fascia di età hanno subito una certa contrazione a conferma che il basso costo della forza lavoro non è sufficiente per la ripresa dell’economia. Il capitale italiano dedica quindi poche risorse ai processi innovativi e ora lo sta facendo per scopi bellici con le cosiddette tecnologie duali.
Se qualche crescita dell’economia, in tempi recenti, c’è stata ha assunto dimensioni assai ridotte e trainata da settori tradizionali con elevata intensità di lavoro e bassi livelli di produttività che poi sono destinati a perdere spazi di mercato con l’arrivo dei dazi e delle nuove tecnologie. E la bassa intensificazione di capitale riguarda ogni settore ed è accompagnata da una dinamica salariale recessiva o, meglio, dalla crescita di forti disparità che hanno al contempo reso la nostra società sempre più diseguale.
Se queste sono le premesse per ragionare seriamente attorno al tema della produttività, le conclusioni sono presto fatte: la crescita dell’economia italiana è veramente debole, la dinamica salariale recessiva, i risultati ottenuti modesti e discontinui a palesare ritardi strutturali del nostro paese. Davanti al mancato rafforzamento strutturale della produttività del lavoro la conclusione è quasi scontata: quando non basteranno le risorse stanziate per il riarmo da qualche parte i soldi dovranno essere presi e, a tal punto, l’economia di guerra opererà delle scelte come il contenimento della spesa per il welfare.
Perfino le opere di compensazione promesse agli enti locali in cambio della accettazione di nuove basi stanno svanendo nel nulla perché una economia in crisi ha bisogno di raggranellare per il Riarmo tutte le risorse necessarie. Non occorre la sfera di cristallo per prevedere un futuro radioso per i titoli in borsa delle imprese di armi ma assai amaro per lavoratori e pensionati. E anche per questa ragione, oltre alla solidarietà attiva con il popolo palestinese vittima di genocidio, il 22 Settembre sciopereremo.
Se un giorno i nostri nipoti ci chiederanno conto di quanto accaduto negli ultimi mesi in Medio Oriente e in Italia, potremo almeno offrire delle risposte: noi eravamo contrari al genocidio di un popolo e alla complicità dei nostri governanti, eravamo contrari al Riarmo e alla economia di guerra.