L'odio sociale della Lega contro i lavoratori

L'odio sociale della Lega contro i lavoratori

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Recentemente Matteo Salvini si è unito al coro di coloro i quali criticano il Reddito di Cittadinanza (RdC, d’ora in poi) per l’effetto che quest’ultimo avrebbe sulla disponibilità dei lavoratori ad accettare le generose offerte di lavoro degli imprenditori. Secondo il leader della Lega, “molto semplicemente se tu prendi 600 euro per stare a casa a guardare la televisione e ti offrono 600 euro per andare a fare il cameriere, la soluzione la lascio intuire”. Per Salvini, 600 euro al mese rappresenterebbero quindi una remunerazione congrua e dignitosa per un lavoratore, peccato che da più parti è stato ricordato al Matteo nazionale che la soglia di povertà in Italia è stata fissata a 780 euro al mese che, per l’appunto, è una miseria. Figuriamoci 600 euro.

D’altronde, è soltanto una perfida propaganda, quella di Salvini, il voler difendere gli interessi di tutti i figli dell’italica nazione. In realtà, per Salvini ci sono figli prediletti da coccolare e figliastri da maltrattare. I primi altro non sono che il blocco sociale degli imprenditori, mentre i secondi sono proprio i lavoratori, la stragrande maggioranza del popolo tricolore. Infatti, in diverse occasioni il segretario della Lega ha mostrato il suo vero volto come, più recentemente, a proposito dello sblocco dei licenziamenti. Insomma, dopo i lavoratori stranieri, il bersaglio preferito di Salvini è rappresentato dai lavoratori italiani. Dunque, possiamo dire che il vero odio sociale della Lega è nei confronti dei lavoratori tutti, a prescindere dalla loro nazionalità. Questo è il vero Salvini: un tirapiedi dei suoi padroni, un procacciatore di manodopera a buon mercato, un mezzano, un lenone, un prosseneta. Un Kapo.

Quindi, l’attacco di Salvini nei confronti del RdC e dei lavoratori, che non accettano salari al di sotto della soglia di povertà, non può e non deve sorprendere. Pur avendo egli stesso contribuito in maniera decisiva all’istituzione del RdC – quando faceva parte del primo governo Conte – e pur avendo per qualche tempo giocato, in maniera poco credibile, a fare l’euroscettico, Salvini dimostra ancora una volta di condividere con le istituzioni europee e con i paesi cosiddetti “frugali” l’insofferenza nei confronti di qualsiasi strumento che possa limitare la corsa al ribasso delle retribuzioni.

Come abbiamo più volte sottolineato, l’impianto istituzionale che regge l’Unione europea e, in particolare, la zona dell’euro, porta con sé disoccupazione e precarietà. In queste condizioni diventa più facile per i datori di lavoro strappare contratti che prevedono bassi salari e misere condizioni di lavoro. Un alto tasso di disoccupazione, infatti, rende i lavoratori più malleabili quando si tratta di accettare un determinato salario, perché sanno che non sarà facile trovare un posto di lavoro alternativo.

Allo stesso modo, la riduzione del grado di protezione del posto di lavoro (attraverso il sempre più diffuso utilizzo di contratti a tempo determinato e tramite lo smantellamento delle protezioni previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), associata alla libera mobilità dei capitali, che permette ai capitalisti di andare in altri Paesi a cercare salari più bassi, rende i lavoratori e i sindacati più deboli in fase di rinnovo dei contratti collettivi.

Tutte queste tendenze sono ancora più incisive in quanto gli Stati non possono intervenire, qualora mai volessero, in maniera decisa creando direttamente posti di lavoro, a causa dei vincoli di bilancio imposti dai trattati europei e dall’accentramento della politica monetaria nelle mani di un’autorità che ha come principale preoccupazione non la piena occupazione, ma l’inflazione.

Eppure, il partito di Salvini, nel suo tentativo di picconare il RdC, è in buona compagnia tra i banchi parlamentari. E questa volta non si tratta del PD o di Renzi. Si tratta addirittura di coloro i quali sono stati i principali sostenitori di questo strumento, la cui introduzione hanno festeggiato con una festa sul balcone di Palazzo Chigi, al grido di “abbiamo abolito la povertà”. Dal M5S, infatti, è arrivata una proposta che avrebbe aumentato in maniera esponenziale la portata degli odiosi meccanismi di condizionalità che hanno accompagnato l’introduzione del RdC. La deputata Valentina D’Orso, infatti, ha dichiarato di aver depositato un emendamento al disegno di legge di conversione del decreto Sostegni-bis che, modificando la disciplina del RdC, prevede che i percettori dovranno accettare, pena la decadenza del beneficio, offerte di lavoro stagionali entro un raggio di 100 chilometri dalla propria residenza.

La proposta sembra non essere passata. Tuttavia, si tratta di una resa incondizionata alla velenosa retorica secondo la quale il RdC sarebbe dannoso perché spinge i lavoratori a rifiutare contratti stagionali nel settore turistico e nella ristorazione. Un’ancora di salvezza per tutti quegli imprenditori che pretendono che non solo i lavoratori accettino qualsiasi retribuzione pur di lavorare, ma anche che lo facciano col sorriso e “mettendosi in gioco”. Una proposta di modifica che certifica in maniera palese la svolta governista del M5S sulla misura simbolo dell’avventura politica dei pentastellati. Non è molto probabile, infatti, che si è trattato dell’iniziativa isolata di una deputata. Gli emendamenti, di norma, vengono depositati con l’ok della leadership del gruppo parlamentare. Se quell’emendamento è stato presentato è perché è stato approvato nelle sfere più alte del Movimento.

Come se non bastasse, a fare da eco all’attacco diretto da più fronti al RdC, è appena scoppiato il caso del concorso dei 2800 tecnici per il Sud: il primo concorso dell’era Brunetta, con una preselezione basata sui titoli che avvantaggia, perché non è mai abbastanza, la classe sociale più abbiente. La polemica nasce dal fatto che metà degli ammessi non si è presentata e ciò è stato subito strumentalizzato, gridando allo scandalo (per bocca di un sindacalista CISL!), per dire che gli italiani snobbano le offerte di lavoro perché sognano ancora il posto fisso. Come se fosse una cosa folle, d’altronde. La verità è che – come spesso accade – con la selezione per titoli sono stati tagliati fuori buona parte dei giovani che si erano iscritti e sono stati ammessi lavoratori specializzati che, godendo di posizioni lavorative migliori, non si sono presentati. Bisogna infatti ricordare che questo concorso prevede l’assunzione di 2800 tecnici a tempo determinato, e pagati come un funzionario di base (poco più di 1.500 al mese), a cui si richiedono molte competenze specifiche, tipiche di lavoratori che hanno già una esperienza lavorativa consolidata.

Il mondo del lavoro è continuamente sotto attacco perché la fame della classe imprenditrice non è mai sazia. Questa guerra, che viene portata avanti giorno dopo giorno, viene camuffata in maniera vergognosa in una lezione di falso e bieco moralismo nei confronti della classe lavoratrice che viene dipinta come pigra e pretenziosa. E il RdC rappresenterebbe, ritornando sulle parole di Salvini, quel comodo divano su cui sdraiarsi a guardare la televisione ed esser pagati per farlo. Tutto ciò è insopportabile.

La miserabilità dell’attacco del leghista, e di tutti coloro che, sin dalla sua istituzione, hanno criticato il RdC per il suo effetto sulla disponibilità dei lavoratori ad accettare salari al limite della sussistenza, risalta in maniera ancora più evidente quando si prende in considerazione il fatto che il RdC non rappresenta che un semplice palliativo alle sofferenze di tanti lavoratori e disoccupati, stremati da anni di austerità e indeboliti da riforme dei contratti di lavoro sempre più improntate alla precarietà e alla ricattabilità della forza lavoro.

Non si può, infatti, dimenticare che il RdC mitiga in maniera estremamente marginale le conseguenze di queste politiche tutte atte a favorire il capitale e a sostenere i margini di profitto. Non potrebbe, infatti, essere altrimenti, poiché accanto al RdC non è stato fatto nulla per invertire le dinamiche del mercato del lavoro incentrate sulla precarietà dei contratti e, sul piano della politica economica, per invertire la progressiva ritirata dell’intervento pubblico nell’economia a tutti i livelli con gli evidenti nessi causali sui livelli di occupazione che ciò comporta.

Lo stesso RdC, inoltre, porta con sé le stimmate della visione per la quale i lavoratori devono essere disposti ad accettare salari da fame e adattarsi alle richieste del mercato, pena la perdita del beneficio. Inoltre, non si può non sottolineare che i requisiti di residenza (10 anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due in maniera continuativa) fanno sì che questo strumento di sostegno al reddito non sia applicabile a molti lavoratori stranieri, che si ritrovano ancora più indifesi davanti alle pretese dei padroni, e dunque messi ferocemente in competizione con i lavoratori italiani, a tutto vantaggio, ancora una volta, del capitale.

Un capitale che, quindi, non può che vedere come fumo negli occhi qualsiasi intervento che possa anche soltanto lontanamente aiutare le persone che si trovano in una condizione di disoccupazione né tantomeno ridurre quest’ultima poiché strumento fondamentale per la classe dominante nello sfruttamento dei lavoratori. La disoccupazione dipende dal livello della domanda aggregata: tanto più bassa è la domanda, tanto più bassa sarà la produzione e tanto più alta la disoccupazione. Non è un caso, quindi, che in Europa vengano perseguite politiche di austerità per contenere la domanda aggregata. Per contrastare tutto ciò, dobbiamo rivendicare una politica fiscale espansiva, attraverso una spesa pubblica in deficit, che favorisca il riassorbimento della disoccupazione, e una radicale riforma del lavoro, in totale controtendenza con gli ultimi decenni, che protegga i lavoratori con adeguate remunerazioni salariali e contratti stabili.

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