Oltre il diritto, contro l'ordine: Gaza è il volto della verità

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Oltre il diritto, contro l'ordine: Gaza è il volto della verità

 

di Pasquale Liguori

Siamo alla carestia. Non è una metafora. È una condanna a morte pronunciata per fame. Dopo oltre venti mesi di bombardamenti incessanti, di intere città rase al suolo, di ospedali distrutti e campi profughi trasformati in fosse comuni, a Gaza non resta più nulla da annientare se non la carne viva dei sopravvissuti. Ed è quella che oggi si vuole distruggere: con l’assedio, con il calcolo lucido dello sterminio per denutrizione.

Chi ha un briciolo di lucidità morale non può non vedere che siamo di fronte allo stadio estremo della strategia genocida. La fame non è un effetto collaterale: è un’arma. Ed è stata concessa, favorita, accettata da tutte le potenze che in questi mesi hanno predicato la diplomazia, il negoziato, i riti giuridico-amministrativi. Gli stessi che per mesi hanno recitato l’inetta illusione dei “due popoli, due stati”, mentre uno dei due – privato dei propri territori e della possibilità di autodeterminazione - veniva sistematicamente fatto a pezzi con il pieno contributo delle capitali occidentali. La fame è oggi il volto più atroce della menzogna liberale.

Eppure, c'è chi ancora si appella al diritto, come se potesse redimere ciò che ha strutturalmente reso possibile. Chi ha dichiarato “condanniamo il 7 ottobre senza se e senza ma” ha inaugurato, molto spesso consapevolmente, il terreno morale su cui si è costruita la legittimazione del genocidio. Ha separato il gesto dalla sua storia, la resistenza dal contesto, la politica dall’orrore, applicando una sensibilità selettiva alle vittime: tanto assoluta e totalizzante per quel preciso giorno - sempre richiamato come formula imprescindibile a premessa di qualsiasi enunciato – quanto anestetizzata, resa tollerabile nei venti mesi successivi di genocidio dei palestinesi. È questa ipocrisia ad aver fornito carburante alla ferocia, al disumano. Condannare “senza se e senza ma” un atto di rivolta e poi restare muti, moderati, di fronte all’ecatombe sistemica quotidiana, è il crimine morale da cui tutto è partito.

E non è nemmeno più sufficiente denunciare quest’ipocrisia. Occorre disarticolarne la struttura, rifiutarne i presupposti. Il genocidio in corso a Gaza non è un’anomalia del sistema internazionale: ne è l’espressione più coerente. È il risultato di un ordine giuridico-politico fondato sul potere, sulla riproduzione dei rapporti di forza, non sull’universalità della giustizia.

Tutti coloro che oggi parlano di “giustizia futura”, di “tribunali internazionali”, di “una nuova Norimberga” - persino quelli animati da sincera indignazione - continuano a muoversi dentro la gabbia ideologica di un ordine che ha già fallito. È proprio tale ordine che ha reso possibile lo sterminio del popolo palestinese. È lo stesso diritto internazionale, agito con doppi e tripli standard, che ha permesso a Israele di godere da sempre dell’impunità strutturale, garantita nonostante crimini sistematici, documentati, reiterati. È questo sistema multilaterale che, con le sue assemblee, i suoi consigli, le sue commissioni, i suoi organismi indipendenti, le sue risoluzioni ignorate, ha coperto l’assedio, la colonizzazione, l’apartheid.

Non ci sarà nessuna giustizia futura, se continuiamo a concepirla nei termini di questo paradigma. In definitiva, non ci sarà nessuna Norimberga per Gaza, perché Gaza non è stata generata dalla rottura dell’ordine internazionale, ma dal suo funzionamento ordinario. Norimberga fu possibile perché, dopo la disfatta totale del nazismo, chi vinse volle legittimare un nuovo ordine mondiale. Oggi, invece, questa “nuova Norimberga” sarebbe presieduta da alleati, finanziatori, complici dell’accusato. Seduti sul banco dei giudici - o appostati alle loro spalle - troveremmo gli stessi che hanno reso materialmente possibile, e politicamente sostenibile, il genocidio. Gaza non è una falla della civiltà giuridica liberale, è la sua verità nuda, esibita al mondo.

È tempo di prendere atto che l’intero edificio della legalità liberale - con la sua retorica dei diritti, dei trattati, della propagandata imparzialità - è parte integrante della macchina di guerra occidentale. Un dispositivo che non garantisce protezione ai popoli aggrediti, ma solo legittimità agli aggressori. Che non previene i genocidi, ma li istituzionalizza. Che non condanna, ma dilaziona. Del resto, lo scriveva con lucidità lo stesso Walter Benjamin: non si può criticare il diritto senza smascherare la violenza che lo istituisce. E quella violenza, oggi, ha un nome preciso: Israele, insieme all’apparato globale che lo protegge e lo legittima.

La raccolta di firme, gli atti dimostrativi effimeri, le petizioni, i premi per la pace - spiace dirlo, ma occorre farlo - sono il vezzo di una società corrotta che ha trasformato il dissenso in performance e la solidarietà in happening. La nostra indignazione è stata neutralizzata da decenni di rituali “democratici” senza conseguenze. Non c’è nulla da firmare, nulla da attendere, nulla da commemorare. C’è solo da disobbedire.

Questa tragedia non appartiene a una futura storiografia: è la soglia davanti alla quale si misura la possibilità stessa della politica, oggi. O si è contro questo ordine globale, contro i suoi codici morali, giuridici ed economici, o si è suoi complici.

La lezione che ci arriva da Gaza non è solo una lezione di resistenza. È una chiamata all’insurrezione etica e intellettuale contro ogni forma di pacificazione retorica. È una verità che squarcia la menzogna fondativa dell’Occidente: l’idea che possa esser sufficiente un sistema di norme e tribunali per garantire la giustizia e che l’umanità possa convivere con il crimine se sufficientemente legalizzato, negoziato.

Dunque, Gaza non chiede solidarietà farlocca. Chiede verità. E verità, oggi, significa dire che l’unica posizione moralmente e politicamente legittima è il rovesciamento di questo ordine imperiale. Senza se. Senza ma.

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