"Perché il mondo ci ha dimenticati?" Viaggio nei campi profughi palestinesi di Beirut

"Perché il mondo ci ha dimenticati?" Viaggio nei campi profughi palestinesi di Beirut

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di Paola di Lullo


"Chi siamo noi? Perché il mondo ci ha dimenticati? Perché, oltre alla perdita della nostra terra, al nostro vivere da esiliati, abbiamo dovuto subire anche stragi violente e crudeli, quanto inutili? Stragi contro un popolo disarmato alla ricerca di un po' di pace e serenità? Penso a Tel al Zaatar, a Sabra e Chatila, a corpi sventrati con sadismo. Cosa siamo noi? Non siamo esseri umani, noi? Volete forse che ci dichiariamo animali? Loro li curate, li sfamate, li vestite, li coccolate. Allora siamo animali. Volete che ci dichiariamo piante? Le annaffiate, le potate, le travasate. Allora siamo piante. Volete che ci dichiariamo oggetti? Li spolverate, li lavate, li sistemate con cura. Allora siamo oggetti. Siamo e saremo ciò che vorrete purché vi ricordiate che esistiamo, che chiediamo il diritto ad un'esistenza decorosa e degna".
È con questo grido di dolore che lascio Beirut ed i 3 campi profughi palestinesi che ospita al suo interno, Burj al Barajneh, Chatila e Mar Elias.





Non è facile aggirarsi per un campo profughi, sapete? No, non è solo per le stradine strette e maleodoranti, per i cumuli di spazzatura, per i fili elettrici a vista misti alle condutture dell'acqua, per quella strana tendenza a camminare a naso in su per cercare uno spicchio di cielo che restituisca un minimo di buonumore. Non è nemmeno esclusivamente colpa del nostro aspetto occidentale, seppure il medesimo ci identifica come stranieri. Che ci facciamo lì? Perché sembriamo così curiosi? Perché scrutiamo tutto e tutti?





Siamo noi  sotto esame. Occhi ci scrutano a loro volta, diffidenti,  per capire chi siamo, cosa vogliamo, ancora, cosa possiamo portar loro via che non gli sia già stato tolto. Siamo venuti a vedere la disfatta?  A fotografarla anche, magari?  A portare con noi la prova tangibile dei nostri successi, come fossero trofei da esibire?

Siamo noi "gli sbagliati". I fuori posto. Gli inadeguati. Noi, con i nostri volti sgomenti per quanto vediamo, con le nostre menti in subbuglio, siamo i veri perdenti, lì.

Perché conta poco che molti di noi non siano stati spinti da malsana quanto morbosa curiosità, ma dal desiderio di conoscenza e dalla necessità di diffondere quanto viene nascosto dai media mainstream.  E molto conta, invece, che  la sconfitta, loro e nostra, sono colpa dell'indifferenza dei più, dell'incapacità di lottare abbastanza per coloro che dovremmo essere in grado di riconoscere come nostri simili, nati dalla parte sbagliata della storia. Noi, che costruiamo muri e curiamo i nostri orticelli, più o meno grandi, ignorando l'altrui sofferenza, in ragione di esigenze economiche, siamo i parassiti, i vigliacchi, tanto ben descritti da A. Gramsci. Noi viviamo calpestando altri esseri  umani.


La nostra umanità - o dovrei dire il nostro buonismo? - è sconfitta da decenni di misera esistenza, in cui fierezza, dolore  a tratti rassegnato, a tratti furioso e dignità si mescolano in un tutt'uno, regalandoci  un ritratto che, a saperlo cogliere, varrebbe da solo l'intero viaggio. Noi possiamo permetterci di essere magnanimi, comprensivi, noi. Noi siamo nati dalla parte giusta, vero? Eppure siamo noi i veri colpevoli, gli sconfitti , gli ignavi.
 
I palestinesi sono profughi da ormai 70 anni, il loro status di rifugiato è ereditario e, secondo la Ris. ONU 194 dell'11 dicembre 1948, hanno il diritto di ritornare nella loro terra.  Ma in settant'anni nulla è cambiato, se non il numero di profughi, in origine 750.000, oggi circa 5.000.000.

Donne, uomini, anziani, giovani e bambini. Alcuni si lasciano fotografare volentieri, altri girano il volto.





Solo quando, grazie all'Associazione Beit Atfal Assomoud, che opera in tutti i campi, entriamo in qualche casa, l'atteggiamento cambia. Forse capiscono che siamo sinceri e raccontano. Racconti sommessi, a volte, strazianti  altre, di vittoria, anche. Ma sempre e comunque di condanna.

Samiha ha 80 anni ed è libanese sciita. Ci dice che, con due figlie, è sopravvissuta alla strage perché si trovavano fuori dal campo, in quei giorni. Al ritorno, hanno trovato i corpi di 7 familiari orrendamente trucidati, oltre a quello di un amico. Il marito, palestinese,  la figlia quindicenne, fresca sposa, ed il suo giovane marito, il figlio dodicenne, il fratello, erano lì, barbaramente assassinati.

Samiha aveva perso il suo primo marito, combattente di al Fatah,  nel 1978, in un bombardamento israeliano nel sud del Libano. Dopo il massacro di Sabra e Chatila si recò a sua volta nel sud del Libano con le figlie, ma poi Arafat ordinò che le si comprasse la casa nella quale, aiutata da amici dell'OLP, era tornata a vivere, a Chatila. Ha lavorato come inserviente in una scuola per consentire alle figlie di studiare. Oggi è una donna sola, con il diabete e tanto dolore che traspare dalle parole, dalle lacrime, dagli abbracci che spontaneamente ci offre. Samiha è una delle tante pugnalate al cuore della nostra coscienza, posto che ne abbiamo ancora una.

I giovani in motorini con rombi improbabili, che ricordano quelli dal motore truccato dei quartieri spagnoli di Napoli e non solo, sfrecciano via. Per quanto sia possibile sfrecciare in quelle viuzze. Nessun sorriso, sui loro volti. O, almeno io non ne ho visti. Sono loro la vera, nuova emergenza di cui ci parleranno associazioni e politici di ogni appartenenza. Sono loro i senza futuro, la gioventù bruciata dall'impossibilità di pensare, anche solo immaginare, un futuro degno di essere vissuto. Loro sono già tossicodipendenti, alcolizzati, inclini ad una violenza, scaturita dall'impotenza nei confronti di un mondo che li ha dimenticati e di un paese che li ospita, ma non li vuole. Sono aumentati i disordini nei campi, pattugliati dall'esercito libanese, ed i furti. Le famiglie non riescono ,da sole, a fronteggiare l'emergenza.




E gli aiuti sono al solito insufficienti. Per una volta, vorrei evitare  statistiche, solo segnalare che i numeri fornitici dai comitati dei campi non corrispondono con quelli segnalati dal rappresentante dell'UNRWA  a Beirut (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East, ossia Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente), istituita nel 1949 dall' Assemblea generale delle Nazioni Unite ai sensi della risoluzione 302 (IV), con un mandato temporaneo di circa 5 anni.

In tema di sanità, nemmeno con quelli segnalati dalla Mezzaluna Rossa Palestinese. In buona sostanza, prima del taglio di fondi operato dagli USA, l'UNRWA sarebbe stata in grado di sopperire ai bisogni primari , casa, salute e scuola, in percentuali assai più elevate del 12% indicatoci dai comitati dei campi. 12% del totale delle famiglie palestinesi in Libano, con 100 $ a famiglia per la casa e 27 $ per persona al mese.

12 i campi nei quali i palestinesi vengono ospitati. 400.000, ci dicevano lo scorso anno. 200.000, forse 250.000, ci dicono oggi. Una stima più corretta è impossibile.

L'emergenza lavoro, accanto a quella giovanile, trova tutti più o meno concordi. Sarebbero 72, per altri 39, le professioni cui i palestinesi in Libano non possono accedere. Da tutti i tipi di lavoro statale a quelli che prevedono l'iscrizione ad un albo professionale. La discrepanza numerica nasce dalla confusione di una situazione paradossale. Posto che sulla carta sono 39 le professioni ufficiali non accessibili, diventano 72 per la grande richiesta delle altre. Richiesta cui non corrisponde effettiva offerta. Quindi, seppur 33, delle 72 professioni su citate, sarebbero aperte ai palestinesi, la domanda, visti i migliaia di laureati, è di gran lunga superiore all'offerta e questo fa sì che, per la stragrande maggioranza dei palestinesi, anche le 33 professioni non negate, siano inaccessibili. Ciò porta il numero totale a 72. La disoccupazione resta altissima, la soglia è stimata al 40%, ma in realtà è ben più alta.



Eppure, una sera, accade l'impensabile. Siamo al campo di Burj Al Shamali e ci accingiamo a sentir suonare e cantare, nonché a vedere danzare, i ragazzi del campo  e quelli di Rashidiya, altro campo profughi che visitammo lo scorso anno.

Sono misti, bambini e bambine, anche piccolissimi, ragazzi e ragazze, e poi giovani un po' più grandi. La verità? Dapprincipio, mi annoio. Allora fisso lo sguardo sui volti che ho di fronte...ed è lì, la Palestina negata, la Palestina di cui sono innamorata, è in quella sala, di fronte a me. Dove? Negli occhi fieri ed indomiti di questi ragazzini, nei loro volti dolci e coraggiosi, nel loro senso di appartenenza ad una terra mai vista, ma tanto agognata, marchiata a vista sulla pelle, come segno di vittoria. Nella voglia di mantenere intatti i loro usi e costumi, nell'indossare con vanto abiti tradizionali palestinesi, nell'ostinazione a conservare cultura e memoria. Perché chiamatela come vi pare, anche Sion, ma quella è, e sempre sarà, Palestina.




I politici libanesi, incontrati lo scorso anno e questo, spenderanno tutti parole di sostegno accorato per i palestinesi, ma oggi più di ieri, mentre il Libano, a cinque mesi dalle elezioni, si trova ancora senza governo, nessuno è disposto ad inserire nella sua agenda politica la causa palestinese. Perché va bene ospitarli, purché non se ne parli. Purché non si dica che non sono in condizione di condurre una vita nemmeno lontanamente decorosa, che sono ghettizzati, marginalizzati, trattati con sprezzo, proprio come i profughi  che sono arrivati qui, in occidente.

Sotto i nostri piedi, nel cimitero di Chatila, , il reliquiario, circondato di alberi e rose,  aperto ai visitatori e realizzato dal sindaco di Ghobeiry, quello stesso dove, dal 2000, ogni anno si ripete  la commemorazione, i corpi dei 3.500 palestinesi e libanesi trucidati di cui si conoscono le generalità. Chiedo informazioni riguardo le altre fosse comuni che mi risultavano esistere allorquando Stefano Chiarini recuperò la più grande, "uno sterrato pieno di immondizia". Ci dicono che si è proceduto all'identificazione, tramite test del DNA,  di tutti  i corpi che presentavano compatibilità con i superstiti.  Coloro per cui non c'è stata identificazione alcuna, non sono tra i dispersi dichiarati, ma neppure identificati. Oggi, quelle tre fosse non esistono più, sono state smantellate.

Tutti noi, uniti ai superstiti del massacro  di Sabra e Chatila, di cui si conoscono mandanti ed esecutori, chiediamo che sia fatta giustizia per la memoria dei morti e per i vivi. Chiediamo che i superstiti e tutto il popolo palestinese ricevano le scuse formali per il peggior crimine del secolo scorso. Crimine che il 16 dicembre 1982, con la risoluzione 37/123, sezione D, l'Assemblea delle Nazioni Unite condannò e definì "un atto di genocidio". 

Nessuno ha ancora pagato, nessuno ha risarcito i palestinesi, né moralmente né economicamente.

Noi resteremo con i palestinesi, continueremo a denunciare i crimini sionisti, a chiedere giustizia. Perché, non è solo uno slogan, ma non ci può esser pace senza giustizia.
 
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.

Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

 

"Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
 Antonio Gramsci

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