Propaganda di guerra e marginalizzazione del dissenso

Propaganda di guerra e marginalizzazione del dissenso

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di Giulio Di Donato - La Fionda


Quando si parla di compressione del dibattito pubblico e di marginalizzazione del dissenso bisogna avere cura di distinguere il piano dei talk show dal piano di chi gestisce e diffonde le notizie primarie, quelle che costituiscono la premessa necessaria e inaggirabile delle interpretazioni ritenute pubblicamente accettabili.

Se nel chiacchiericcio organizzato dai grandi canali televisivi una qualche sembianza di dialettica aperta fra le idee c’è, sul fronte informazione, con riferimento soprattutto alla politica estera, non sono invece ammessi cedimenti (eppure non è stato sempre così, basti pensare al Tg3 degli anni ‘90, ovvero alla Rai di Ennio Remondino, Angelo Guglielmi, Sandro Curzi, Fulvio Grimaldi, Ilaria Alpi, Michele Santoro, Carlo Freccero ecc.). La stessa pretesa di compattezza e uniformità viene fatta valere nei confronti del ceto politico di maggiore peso e rilievo, che va costantemente mobilitato contro il nemico russo/cinese: non è il tempo dei disertori, dei complici e dei disfattisti – ci spiegano le nuove vestali fanatiche della propaganda di guerra occidentale -, etichette che vengono utilizzate per squalificare moralisticamente chi assume posizioni anche molto (troppo) caute e prudenti come quelle espresse in tema di invio delle armi dal M5s di Giuseppe Conte. Per quanto riguarda i singoli cittadini e i gruppi politici minori, questi sono liberi di manifestare ed esprimere il loro dissenso nei confronti delle politiche di guerra occidentale nelle forme che ritengono più opportune, tanto rimarranno opinioni, giudizi e pratiche destinate, come al solito, ad incidere ben poco sulla dimensione collettiva. Tutto oggi si può dire e fare in basso, ma nulla veramente conta e incide. E questo alimenta quel senso di inutilità e impotenza posto alla base della spirale di sfiducia e scetticismo verso i canali tradizionali (usurati) di partecipazione politica (dalle elezioni ai referendum) con cui oggi tragicamente ci confrontiamo.

Si obietterà: eppure i dibattiti radiotelevisivi sono soliti ospitare anche voci politiche critiche, come quella (coraggiosa e isolata) di Alessandro Di Battista, dunque parlare di militarizzazione del discorso pubblico è eccessivo. Questo è vero, ma solo in parte: tali figure infatti trovano spazio finché non diventano o ritornano protagoniste sul fronte dell’iniziativa politica, finché cioè non acquistano quella forza politica necessaria per modificare gli equilibri esistenti.

Comunque, cosa succederebbe, se, nonostante tutto, forze e personalità critiche o ostili al vincolo esterno euro-atlantista si trovassero a occupare i posti di comando? In che modo esse dovrebbero adoperarsi nell’ottica di guadagnare margini concreti di autonomia e di “vitalità” per il nostro Paese senza incorrere nelle reazioni che abbiamo imparato nel tempo a conoscere, dalle tragiche vicende di Enrico Mattei e Aldo Moro fino al più recente veto presidenziale di Sergio Mattarella su Paolo Savona?

Prima di rispondere bisognerebbe paragonare il nuovo contesto a quello passato, sottolineando i suoi elementi di novità e di maggiore difficoltà e incertezza: non solo per la mancanza di una classe dirigente di qualità, dotata di senso dell’autonomia della politica e capace di ragionare politicamente e realisticamente in termini di interesse nazionale, ma anche per un quadro geopolitico in movimento caratterizzato da un clima di mobilitazione totale dagli esiti ancora poco prevedibili e da richieste di fedeltà assoluta. Basti pensare, quale conseguenza principale di questi mesi di conflitto fra Nato e Russia in Ucraina, al completo allineamento dell’Italia e con essa dell’intera Ue nell’orbita degli interessi e delle esigenze militari ed economiche degli Stati Uniti, con tanto di ridimensionamento se non proprio di annullamento delle relazioni commerciali fra i Paesi europei e la Russia, e di ridefinizione a tutto svantaggio dell’Europa di quelle con la Cina.

Sullo sfondo la transizione ben poco lineare dalla globalizzazione neoliberale trainata dell’unilateralismo americano a quella che viene definita da diversi analisti “globalizzazione fra amici”, dove lo spazio delle relazioni risulterebbe limitato ad un ambito ristretto di aree affini, distinte e sempre meno interdipendenti fra loro. Parliamo di grandi blocchi con alcune differenze al loro interno: senz’altro i BRICS non conoscono la struttura rigidamente gerarchica e piramidale del blocco Nato dominato in maniera schiacciante dagli interessi degli Usa.

Nel frattempo per i nostri “amici” a stelle strisce la sfida con la Cina si va articolando su più livelli: agitando lo spettro del conflitto militare alimentando le spinte indipendentiste di Taiwan, indebolendo i rapporti fra la Cina e i Paesi europei, logorando la Russia nel pantano del conflitto in Ucraina, disarticolando i BRICS, ingaggiando infine sul piano ideologico una lotta condotta del nome dei nuovi scenari dal volto “umano, democratico e sostenibile”.

Naturalmente c’è grande cautela nel fare questo, anche per via delle grandi divisioni (a cui guardare con attenzione) che attraversano il sistema di potere statunitense, e il guanto di sfida non viene mai lanciato in maniera troppo aperta e definitiva, anche perché ci sono settori del grande capitale occidentale che guardano con preoccupazione alla rottura del rapporti economici con la Cina. Non è detto, per quanto riguarda l’economia Usa, che il richiamo all’ordine dell’Europa basti a compensare tale eventuale perdita.

Forse proprio la necessità di salvaguardare un livello minimo di interdipendenza globale può aiutare il nostro Paese nell’ottica di rilanciare una politica estera maggiormente autonoma e assertiva, sulla scia delle migliori esperienze del nostro passato. Ieri il bipolarismo competitivo con l’Unione sovietica, oggi il bipolarismo conflittuale con la Cina, freddo a livello di rapporti geopolitici, ma ancora caldo a livello di relazioni commerciali: un equilibrio di questo tipo, per quanto precario, può favorire ripensamenti di strategia (se non in Italia, speriamo in un sussulto di orgoglio all’interno di Francia o Germania) e una presa meno forte degli Usa sul continente europeo. Anche questa ipotesi di scenario non farebbe però venir meno la necessità per una forza politica che intenda concretamente affermarsi sulla base di un diverso orientamento geopolitico di assicurarsi il sostegno e la protezione indiretta e mai troppo esplicita di una sponda estera (i Paesi del BRICS?). Non per passare da un giuramento di fedeltà ad un altro o per motivi strettamente ideologici legati ad un pregiudizio antiamericano: vanno infatti privilegiate certe alleanze piuttosto che altre perché si ritiene che esse siano più utili e congeniali al rafforzamento di una visione strategica del nostro interesse nazionale-popolare, da declinare in termini progressivi sul piano interno e orientati al multipolarismo sul piano esterno.

Questo perché la geopolitica condiziona molto i processi interni, anche se non del tutto. Certo, si potrebbe anche pensare di agire prescindendo da essa. Ma a quel punto l’unica strada per un cambiamento vero rimarrebbe l’irruzione di un elemento di rottura forte e inatteso, come può essere ad esempio la comparsa di una forma di peronismo neosocialista alla Hugo Chávez che tenga insieme patriottismo, legami popolari e questione sociale. Ma una tale forzatura rivoluzionaria degli assetti consolidati è al momento impensabile, senza considerare il rischio che una svolta tribunizia di quel tipo, alla luce dei rapporti di forza interni ed esterni al nostro Paese e stante la situazione di ritirata e smobilitazione attuale, più che connotati progressivi, finisca per assumere un carattere regressivo all’insegna di una rivoluzione passiva dai tratti ancora più autoritari.

Rimane comunque il grande rammarico per un’Europa (qui intesa come nucleo dei Paesi fondatori) completamente dimentica e indifferente a se stessa: come grande spazio regionale, seppure meno centrale che in passato, poteva e doveva svolgere una funzione, anche minima, di equilibrio in un mondo nel quale sono emerse forze decise a opporsi all’unilateralismo degli Stati Uniti, promuovendo un assetto pluralistico delle relazioni internazionali e una nuova sintesi tra individuo e comunità oltre il neo-liberalismo, capace di riportare gli animal spirits del tecno-capitalismo finanziario globale sotto la direzione del potere politico, in modo inevitabilmente diverso ma non meno efficace di quanto sia riuscito alla Cina in Oriente, rilanciando ciò che di meglio ha prodotto dalla sua storia recente (l’esperienza del Welfare State con i suoi meccanismi di crescita e inclusione sociale, ad esempio). Ma gli esiti non potevano che essere quelli che conosciamo: l’Ue è stata congegnata in modo tale proprio perché le fosse impossibile sviluppare una soggettività politica autonoma oltre che per deprimere il protagonismo e la vitalità dei singoli Paesi membri. Mettici poi il problema di una classe di governo priva di spessore politico, storico e spirituale, figlia di una lunga stagione segnata dalla spoliticizzazione e dalla neutralizzazione tecnocratica, e il quadro appena disegnato si tinge di colori ancora più cupi e sconfortanti.

Il continente europeo, sempre più periferico e ripiegato su se stesso, ha insomma cercato negli ultimi anni un comodo riparo dalle logiche del politico, coltivando l’illusione della fine della Storia e del primato assoluto dell’economico. Ma la Storia è tornata, all’improvviso e senza bussare alle sue porte, prima con la pandemia ora con la guerra in Ucraina. Del tanto auspicato ritorno del politico non vi è invece ancora alcuna traccia, salvo un rumore elementare di fondo privo di ricadute positive sulla realtà.

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