Salario minimo. La questione teorica (Gianfranco Pala)

Salario minimo. La questione teorica (Gianfranco Pala)

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Le due schede che seguono sono tratte dalla "rivista La Contraddizione" e sono state scritte nel dicembre 1996, redatta da Gianfranco Pala la prima e insieme a Luca Nutarelli la seconda, per la parte finale. Data l'attualità politica del dibattito sul salario minimo, ci è sembrato utile riprendere il problema sul piano teorico, dato che se ne sono perse le tracce. La rubrica era intitolata Quiproquo, la data è significativa a mostrare da quanto tempo se ne è parlato senza costrutto e a quali equivoci implicitamente la tematica si espone, senza che la cosiddetta sinistra se ne avveda mai. 

Ringraziamo calorosamente Carla Filosa che ci permette la pubblicazione e che ha così voluto presentare le righe che leggerete: "Non solo la povertà culturale del dibattito attuale che genericamente parla di "ricchi e poveri" senza nessun'altra qualifica lavorativa, ma anche la proposta ultima di sostituire al salario minimo la contrattazione per la settimana corta di alcune aziende, al momento, senza affrontare l'essenziale del rapporto tempo e intensità e condensazione lavorativa, che premia l'incremento dello sfruttamento cosiddetto."


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QUIPROQUO

i nodi e la scrittura

Nella remota antichità

governarono stringendo nodi,

in epoca successiva i santi

li sostituirono con la scrittura.

(Lu Hsün - da I Ching)

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per la critica del senso comune nell'uso ideologico delle parole

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Salario minimo

(valore della forza-lavoro)

I costi di produzione del lavoro ammontano ai costi di esistenza e di riproduzione del lavoratore. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo. Questo salario minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli lavoratori, milioni di lavoratori, non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell’intera classe lavoratrice, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo. Gli economisti classici consideravano perciò questo “minimo” di salario come il “prezzo naturale” del lavoro: ovverosia, esattamente ciò che è necessario per far produrre gli oggetti indispensabili al sostentamento dei lavoratori, per metterli in condizioni di nutrirsi, bene o male, e di propagare alla meglio la propria classe. 

Il salario, al suo livello minimo sociale, dunque, è storicamente determinato come prezzo dei mezzi di sussistenza necessari, per l’esistenza e la riproduzione dell’intera classe proletaria [cfr. Salario sociale reale, Quiproquo 43; Il salario sociale, Comunismo in/formazione # 3, Laboratorio politico]. Come Marx ebbe sempre modo di precisare, in quei costi necessari per l’esistenza e la riproduzione rientrano anche i prezzi (o le tariffe, le imposte, le tasse, ecc.) pagati per ottenere tutte le merci (oggetti e servizi) avute in cambio del salario nominale. Non sono solo, quindi, i costi di quelle merci che servono al lavoratore singolo che percepisce la busta-paga, ma i costi sostenuti per tutte le persone, vecchie e giovani, abili o inabili al lavoro, che dipendono per la loro esistenza da quella “minima” fonte di reddito. La definizione di salario come entità sociale, reale e relativa, “minima” (nel senso storico chiarito), è quella che si palesa in generale nel comando del capitale sul lavoro. Se non crediamo per questo che i lavoratori avranno solo un tale minimo di salario, tanto meno crediamo che essi avranno sempre questo minimo. Durante un certo arco di tempo, che è sempre periodico, in cui l’economia attraversa il ciclo di prosperità, sovraproduzione, ristagno, crisi, se prendiamo la media di ciò che i lavoratori ricevono in più o in meno del minimo, troviamo che nell’insieme, giacché quel minimo vale per l’intera classe e non per il singolo, essi non hanno ricevuto né più né meno che il minimo; o, in altre parole, che il proletariato si è conservato come classe.

Con lo sviluppo della crisi tale processo assume sempre più evidenza mondiale, fino al punto che l’espulsione dal mercato del lavoro per molti diviene definitiva. E non si tratta certo di una novità odierna. Non solo, ma per i rimanenti, più o meno occupati, regolarmente o irregolarmente, a fronte di più lavoro corrisponde sempre meno salario. Ogni lavoratore è spinto, osservò Marx, a fare “concorrenza a se stesso in quanto membro della classe operaia”. E una concorrenza tra lavoratori salariati entro la classe diventa letale se, soprattutto in fasi di crisi, un minimo di salario venga fissato (magari per legge) al di sotto del valore della forza-lavoro, la qual cosa accade assai spesso negli interventi di tipo assistenzialistico. 

Per questi motivi la determinazione del minimo del salario (come “prezzo naturale” del lavoro) fa sì, come asseriva Smith, che esso sia più basso per il salariato libero che per lo schiavo; e accade che nella produzione capitalistica completamente sviluppata l’accumulazione possa operare rapidamente sulla domanda di lavoro solo se prima dell’accumulazione si è avuto un grande aumento del proletariato (soprattutto attraverso la riproduzione dell’esercito industriale di riserva in tutte le sue forme), se quindi il salario è a un livello molto basso dimodoché anche un suo aumento lo lasci basso.

Insomma, per una corretta definizione del “salario minimo” occorre che anche tale concetto sia coerentemente basato sulla teoria del valore e del plusvalore: a ciò si riduce l’intera questione. Non serve che il proletariato si dia la pena di definire un livello minimo del salario, giacché esso è dato, sia nella pratica sia nella formulazione scientifica, dal rapporto di valore del capitale. Anzi, ogni volta che il proletariato si provi a dire la sua sul tema - posta la vigenza e dominanza del modo di produzione capitalistico - ottiene l’effetto contrario, autolesionistico, di contribuire a deprimere ancor più il salario normale al di sotto di quel minimo, per effetto della concorrenza che il minimo legale ha sul livello salariale normale degli occupati (la storia ultrasecolare di codesto fenomeno dovrebbe insegnarlo con abbondanza di argomenti - cfr. la successiva voce Salario minimo garantito).

Infatti, se in base alla generale teoria marxiana del valore e del plusvalore si intende, come ha da essere, il salario (sociale) in quanto valore globale della forza-lavoro, esso appare anzitutto come capitale variabile per il complessivo processo di autovalorizzazione del capitale anticipato: è il pluslavoro che produce (o riproduce conservandolo nella circolazione) il plusvalore. Stando così le cose, e la loro rappresentazione scientificamente esatta, qualsiasi “reddito” dei lavoratori non può che provenire dalla capacità di incidere sul plusvalore, positivamente (lavoro produttivo) o negativamente (lavoro improduttivo). Ossia la fonte di quel reddito salariale è rintracciabile solo o nell’ammontare del valore globale prodotto (uso della forza-lavoro) o nell’adeguamento del valore di scambio della forza-lavoro, e in nient’altro: il capitale non regala niente. 

Se i mezzi di sussistenza (sotto qualunque forma e a qualsiasi titolo ottenuti: per contratto, per legge o per assistenza) non fossero “capitale” non manterrebbero la forza-lavoro dei lavoratori salariati; mentre è proprio il loro carattere di capitale - e non di reddito - che dà a essi precisamente la proprietà di mantenere il capitale stesso per mezzo di lavoro altrui. La massa dei mezzi di sussistenza che i lavoratori riescono a sottrarre al mercato dipende perciò dal rapporto tra il plusvalore e il “prezzo del lavoro” (ovverosia, il valore della forza-lavoro), e tra questo capitale variabile e quello costante: non si tratta cioè, originariamente, di reddito. Il salario è prima capitale, che solo dopo lo scambio si trasforma in reddito per i lavoratori, così come la loro forza-lavoro è prima merce di loro proprietà che solo dopo lo scambio, con il suo uso, si trasforma in capitale autovalorizzantesi.

Dalla corretta definizione data di “salario minimo”, dunque, si possono capire meglio alcune cose. i. Ogni conquista in termini di elevamento del livello salariale dipende dalla capacità storica, o anche contingente e perciò assai provvisoria, del proletariato di imporre con la forza della lotta un aumento di valore della propria complessiva forza-lavoro. ii. Se si ha una tale forza non si vede per quale ragione essa non debba essere esercitata per ottenere, globalmente per la classe, la corresponsione piena del salario normale degli occupati e l’allargamento della stessa occupazione, anziché disperdere quella (poca) forza per elemosinare un’assistenza minimale, controproducente perché necessariamente inferiore al valore normale della forza-lavoro. iii. l’idea che il salario sia un reddito tout court, senza che se ne sia prima compresa la sua essenza di capitale metamorfosato, ne fa presumere una sua variabilità arbitraria, giacché così facendo lo si considera smithianamente quale addendo indipendente per il computo del prodotto netto complessivo; ossia, lo si stima come grandezza monetaria assolutamente svincolata dalla produzione di valore, la quale dipende invece dalle sue parti costitutive di capitale variabile (appunto, e non immediatamente salario), pluslavoro altrui non pagato e capitale costante. iv. Una siffatta teoria del salario come reddito può albergare solo nel campo delle analisi economiche borghesi, marginalistiche vecchie e nuove, pure e spurie (keynesismo e sraffismo inclusi, perciò), quali ultime estensioni esoteriche di una concezione del reddito senza valore, volgarizzata dall’erronea sommatoria smithiana; e si tratta pertanto di una teoria che svincola il “reddito” salariale dalla forza-lavoro come merce (dal suo valore) e perfino dal lavoro medesimo, pretendendo così di esautorare dalla scena tutta l’analisi di classe e di lotta di classe, che viceversa la teoria del salario richiede, sostituendola facilmente con l’indifferenza comune della “cittadinanza”. v. Risulta ora chiaro dai punti che precedono le ragioni per le quali Marx - tenendo fermo alla teoria di valore, plusvalore e capitale e alla teoria delle classi - non abbia mai trattato della questione del “salario minimo”, se non, da un lato, come corretta definizione di valore storico normale della forza-lavoro, data direttamente dalle leggi del capitale, senza bisogno di aggiungere altro, e, dall’altro, solo per rispondere di sfuggita alla vasta e dispersiva mole di interventi sul tema, tutti non per caso provenienti dai circoli utopistici e filantropici, cristiani e caritatevoli, del socialismo e della borghesia, piccola e media, illuminata [cfr. ancora, appresso, la successiva voce sul Salario minimo garantito].

Dunque, conclude Marx stesso, questa legge della forza-lavoro come merce, cioè la legge del “minimo del salario”, si verifica sempre più a misura che il presupposto degli economisti, il libero scambio, sia divenuto una realtà, un’attualità. Così, delle due possibilità l’una: o è necessario rinnegare tutta l’economia politica basata sul presupposto del libero scambio, il mitico “mercato” oggi invocato anche per la piena “flessibilità” di lavoro e salario, ovvero bisogna convenire che in regime di libero scambio sul mercato capitalistico i lavoratori saranno colpiti da tutto il rigore delle leggi economiche.

“E se i signori borghesi e i loro economisti, nei loro momenti di filantropia, sono così delicati da calcolare nel minimo salariale, cioè dell’esistenza, un po’ di the o di rhum o di zucchero e un po’ di carne, è evidente che deve sembrar loro al contrario scandaloso e incomprensibile che i lavoratori prelevino da questo minimo una parte delle spese per la loro guerra contro la borghesia e che essi si aspettino dalla loro attività rivoluzionaria la più grande soddisfazione della loro vita”.

[gf.p.]


Salario minimo garantito

(reddito di cittadinanza)

Il carattere “sociale” e “minimo” del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode riproduttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di salario o reddito garantito dallo stato o da altre istituzioni pubbliche, mediante prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie, e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti, conduce a un pasticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina (quel tipo di confusione concettuale “inetta e barbarica” sulla quale Hegel ironizzava chiamandola “un ferro di legno”). 

L’essere sociale e minimo del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro entro il rapporto di capitale posto da questo modo della produzione sociale. Non vi è spazio né teorico né storico, perciò, per confondere il carattere sociale del salario con sole sue parti o con differenti forme assistenziali cui le istituzioni borghesi saltuariamente provvedono per concessioni parziali, né il suo livello minimo con analoghe forme assistenziali o contrattuali che danno veste legale all’ipocrita solidarietà della filantropia borghese. Numerosissime sono le argomentazioni che consentono di chiarire questo equivoco, annoso ma sempre più invasivo nell’epoca della putrescenza del corpo imperialistico del capitale.

Anzitutto, al relativo disinteresse di Marx per la questione della fissazione, legale o contrattuale, di un minimo salariale (al contrario, a es, dalla riduzione di orario nell’uso della forza-lavoro), che non fosse quello esattamente stabilito dalla legge del valore della forza-lavoro stessa (cfr. la voce precedente sul Salario minimo), fa riscontro, sul piano teoretico, l’indicazione delle principali fonti di siffatta tematica. Da tali fonti si capisce in quale assurdità filantropica e utopica, se non addirittura ipocrita e interessata, dell’ideologia borghese, piccola e media o illuminata, laica o cristiana, consistesse la rivendicazione di un “salario minimo” garantito. Anche codesta trovata è perlopiù di provenienza francese; ieri, come oggi, è facile rintracciarla nelle varie apparizioni del proudhonismo vecchio e nuovo imperversante. Nondimeno essa, grazie alla precocità del capitalismo inglese, la si trova corroborata al di là della Manica.

Sicuramente una prima base, che ambirebbe essere “teorica”, per sostenere tale trovata è appunto dovuta a Proudhon stesso. Proudhon, per sottrarsi alla conseguenza fatale del fatto che il minimo del salario è il prezzo “naturale” e normale della forza-lavoro viva, al fine di non accettare lo stato attuale della società fa un voltafaccia e pretende che la forza-lavoro stessa non sia una merce, ossia che non abbia un valore. Dimentica così, e si prova a far dimenticare a chi si metta sulla sua strada, che è la forza-lavoro come merce l’unica fonte immediata del reddito dei lavoratori. E sulla sua strada ci si sono messi in tanti, nel socialismo piccolo borghese di ieri e di oggi come nel filantropismo utopico e mistico della borghesia. Osserva Marx: “Proudhon vuole librarsi come uomo di scienza al di sopra dei borghesi e dei proletari, e non è che il piccolo borghese, al di sotto degli economisti e al di sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficienti lumi né sufficiente coraggio, sballottato costantemente tra il capitale e il lavoro, tra l’economia politica e il comunismo”. Se Proudhon fosse finito lì, nei suoi anni di metà ottocento, non ci interesserebbe più di tanto. Senonché le sue metastasi riaffiorano sempre più fitte nei programmi di diverse componenti della sinistra, attraverso i vari Keynes o Gorz o Rifkin o Bihr del momento.

Ecco allora che le sue tesi si ritrovano, insieme a un po’ di Saint-Simon e di Comte, presso un oscuro “socialista” belga dei suoi stessi anni (ma non più oscuro di quanto potrà esserlo Gorz tra un secolo!), il barone Jean Hyppolyte de Colins, che si dichiarava “antimaterialista”. Costui, al posto delle classi riproponeva il contrasto tra ricchi e poveri, per risolvere il quale escogitava ricette magiche proudhoniane per la distribuzione della terra, per le banche di credito senza interesse a favore del popolo, per l’imposta sulla rendita, e via con l’interclassismo di una società dipinta come una “grande famiglia”. Ma, per quello che qui più interessa, salta fuori la specifica ricetta proudhoniana di un “reddito minimo” (che si sarebbe poi trasformato in piccolo capitale per l’avvio di libere attività professionali) da assicurare come apprendistato ai giovani che avessero svolto lavori pubblici di utilità sociale. Non era una novità neppure allora - gli ateliers nationaux di fourierista memoria erano già stati sepolti, pur nella loro sicura maggior serietà, dati i tempi della storia - ma oggi poi!

E che dire allora del coevo tal conte von Ketteler, vescovo di Magonza, per il quale “la questione operaia e il cristianesimo” si coniugavano proprio sul tema dei lavori pubblici capaci di dare assicurazioni sui salari. Ci si potrebbe dilungare assai facilmente sul proliferare di una tale oscura genìa di tanti piccoli alchimisti sociali, pronti a risolvere i problemi dei poveri da assistere, ma non si troverebbe un comunista e tanto meno un marxista (per non dir di Marx), ma solo piccoli disarmati profeti laici o religiosi di stampo borghese.

Per offrire perciò un quadro teorico di riferimento più compiuto e organico conviene trasferire l’osservatorio nel luogo dello sviluppo capitalistico moderno, dove anche il socialismo antimarxista ha trovato un’espressione più analitica: l’Inghilterra. Occorre rifarsi alle “basi” (così le chiamavano) del programma fabiano, radici del moderno laburismo (anche quando esso si è presentato, e si presenta tuttora, usurpando il nome di comunismo - tanto che una simile questione richiederà un chiarimento specifico). Quelle “basi” furono formulate - giusto subito dopo la morte di Marx - con un dichiarato intento di eliminare l’influenza marxista nel movimento socialista, tanto sul piano politico quanto su quello scientifico: ovviamente a cominciare dal rigetto della teoria del valore e delle classi. Obiettivo mirato dell’attacco fabiano alla società esistente non era quindi il plusvalore e il suo modo di produzione, bensì - udite, udite! - la “rendita” (nella quale veniva incluso l’interesse, rendita finanziaria si direbbe oggi, ma non il guadagno d’impresa) in chiave eminentemente di redistribuzione del reddito; lo strumento principale per condurre tale attacco sarebbe stata la sua “tassazione”, fino a far dissolvere il capitalismo per morte propria (“eutanasia?”). 

Del resto le “basi” fabiane concepivano esplicitamente il socialismo come punto d’arrivo dell’evoluzione spontanea del capitalismo, il suo compimento, da assecondare non con la lotta di classe ma con la “democrazia sociale” e la “democrazia industriale”, con la propaganda e l’efficienza amministrativa gerarchica affidata al “governo dei tecnici”. Non deve stupire, allora, che le fonti teoriche di questo “socialismo” siano, oltre alla ricordata rendita ricardiana, l’utilitarismo di Bentham, l’economia di Jevons e Stuart Mill, l’evoluzionismo darwiniano applicato alla società, e uno storicismo senza rivoluzione. Può stupire semmai l’ingenuità di chi, ancora oggi, beve queste chiacchiere che imbonitori della politica presentano come comunismo, magari invocando insieme un incompatibile “ritorno a Marx”.

Non conviene approfondire qui la disamina delle posizioni del socialismo antimarxista, ma basta definire sommariamente il quadro del contesto culturale e della temperie politica in cui anche la “questione del salario minimo” garantito per legge si sviluppò. I giovanotti “lib-lab” [non credano i seguaci postmoderni di Micromega o di Limes che quella etichetta l’abbiano coniata i Flores d’Arcais o i Galli della Loggia, perché così si chiamavano i fabiani un secolo fa] intesero infatti affermare il laburismo nascente dalla cosiddetta “permeazione” fabiana (una prova di “entrismo”) nel partito liberale, facendo leva sul filantropismo umanitario e sui princìpî etici del socialismo cristiano di contro all’allora prevalente anglosassone radicalismo della responsabilità individuale. Diventò in quel periodo una “moda” (soprattutto tra gli universitari, oltre che per i fondatori di “missioni” e di eserciti della salvezza, ecc.) andare nei sobborghi per aiutare i disoccupati e i poveri. “Questi idealisti borghesi - scrive un borghese come G.D.H.Cole - non pensavano affatto all’instaurazione del socialismo, ma a una riconciliazione tra le classi”, al fine di ripristinare, seguendo un “impulso etico” a sostegno dei “miserabili”, un “livello minimo di vita civile” - secondo la dizione cara all’aristocratica Beatrice Potter in Webb.

Ecco: quello del “salario minimo” (insieme a un non meglio definito “diritto al lavoro”, più consono all’etica protestante della “civiltà del lavoro” che alla marxista conflittualità di classe per l’esistenza, e all’appoggio ormai allora inevitabile alla campagna per le “otto ore”, ma intese più sul versante culturale e morale che non materiale pratico) era il principale slogan lib-lab. G.B.Shaw fu l’antesignano del “divorzio” totale del reddito percepito dalla remunerazione per l’attività svolta (questa è la “novità” gorziana del “reddito di cittadinanza”!), mentre il socialista opportunista Hyndman si limitava a richiedere il reddito garantito come forma di assistenza per i disoccupati impiegati nei lavori pubblici. 

Essendo la caratteristica di tale forma di “reddito” quella di essere svincolato dall’attività lavorativa e, soprattutto, dalla forma di merce della forza-lavoro (come pure in quella sua forma particolare del “salario alle casalinghe” di cui perfino il papa è giunto a essere fautore), con la bella conseguenza di trasformare così un elemento antitetico e conflittuale del proletariato - l’unico nella sua immediatezza - in un affidamento alla filantropia del capitale e all’assistenzialismo statale, si può già cominciare a capire perché Marx l’avversasse decisamente. Ma conviene ancora procedere con ordine in tema di salario minimo garantito.

Fu il lib-lab Sidney Webb che propugnò per primo sistematicamente l’assistenza pubblica ai disoccupati con la creazione di posti di lavoro a salario minimo garantito (per lavori industriali privati razionalmente organizzati) e lavori pubblici (ma limitati a manodopera non qualificata, perché ritenuti inefficienti). Insieme a altre proposte di carattere assistenziale quei due punti costituivano il cardine del futuro “welfare state”, come prodromi del cosiddetto “stato sociale”, che oggi i comunisti si ritrovano tra i piedi in tutte le occasioni nel nome di un improbabile “key-nesismo-di-sinistra” o di un assurdo “keynesomarxismo”. Finché si trattasse di vederlo come senso di colpa di giovani intellettuali liberali che moralisticamente anelavano a un “livello minimo di civiltà”, facendo appello alla carità pelosa dei loro anziani borghesi, sarebbe anche comprensibile (tuttavia non accettabile); ma dal punto di vista della lotta di classe del proletariato tutto ciò non va al di là di un semplice “acconto”, come diceva Engels, su quanto, assai di più, la borghesia deve ai lavoratori.

L’occasione di codeste proposte webbiane fu offerta dalla battaglia parlamentare per l’abolizione della vecchia “legge sui poveri” del 1834 - per cancellare l’”onta” della definizione di “povero”, fu peraltro la motivazione moralistica addotta dallo stesso Webb (e l’idea ha fatto strada se oggi i poveracci sono eufemisticamente chiamati, in negativo, “non abbienti” e “meno favoriti”!). Quella legge - come si può leggere su qualsiasi serio libro di storia dell’industria e del movimento operaio - colpiva duramente gli operai dell’industria con la concorrenza dei disoccupati: “i capitalisti industriali, padroni del parlamento - scrive Dolléans - hanno fatto votare la legge sui poveri per deprimere i salari e procurare manodopera a buon mercato. Il diritto all’assistenza è un’assicurazione contratta dai ricchi: la sicurezza concessa ai poveri garantisce ai ricchi il rispetto della loro proprietà”. Inoltre la borghesia fa la beneficienza - l’infame beneficienza di un borghese cristiano!, esclama Engels - come un affare per comprarsi anche il “diritto” alla propria tranquillità, per “esser preservati da sgradevoli e impudenti molestie” (come scrive una “signora” borghese, della quale Engels sottolinea la mancanza di coraggio di chiamarsi ancora “donna”).

Le leggi sui poveri di un tempo, come tutte le leggi di stampo assistenzialistico fino alle più recenti proposte di “salario minimo o reddito garantito”, rientrano nella più generale legislazione sul lavoro salariato. Marx ricorda che la forma stessa di “statuto” o “carta” dei diritti dei lavoratori quale “pomposo catalogo dei "diritti inalienabili dell’uomo"”, fin dalla nascita è coniata per lo sfruttamento dell’operaio e gli è sempre ugualmente ostile [il primo statuto dei lavoratori fu promulgato in Inghilterra da Edoardo III (1349)]. Del resto, anche Smith, insospettabile padre del liberismo borghese, sapeva che “tutte le volte che il legislatore tenta di regolare le differenze fra i padroni e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre i padroni”. Infatti, le leggi sulla regolamentazione dei salari vengono considerate una “anomalia ridicola”, e abolite, non appena i capitalisti siano in grado di regolare l’impresa con la loro “legislazione privata”, facendo integrare con la tassa sui poveri (o con altri marchingegni giuridici: minimo garantito, indennità di disoccupazione, cassa integrazione, fiscalizzazione di oneri sociali, imposta negativa, ecc.) il salario fino al minimo indispensabile, a esclusivo vantaggio dei rapporti di forza padronali. Non è un caso che oggi un liberale conservatore reazionario come Milton Friedman, l’economista ispiratore della Reaganomics, si sia pronunciato a favore di una forma di “salario minimo garantito” mediante il meccanismo dell’imposta negativa. Stabilito un minimo, tutti coloro che percepiscono un reddito superiore a questo, pagano le imposte, gli altri ricevono un’allocazione dallo stato. In questo modo il capitale dei paesi più sviluppati accetta un sistema di gestione della disoccupazione che perpetui la spaccatura tra lavoro e non lavoro favorendo la pace sociale.

La storia è prodiga di insegnamenti del genere (e non si dica che la fattispecie delle antiche “leggi sui poveri” è distante dalle esperienze e proposte più recenti: si tratta di comprenderne appieno la tipologia). Ancora Marx, a proposito della più vecchia legge inglese sui poveri del seicento, commenta così: “Per salvare i comodi della nostra santissima religione dagli assalti dei miscredenti francesi, gli onesti agrari inglesi ridussero i salari dei lavoratori agricoli persino al di sotto del minimo puramente fisico, e fecero aggiungere, mediante la legge sui poveri, il rimanente necessario per la conservazione fisica della razza”. 

Grazie a quella legge, la parrocchia integrava il salario nominale sotto forma di elemosina fino alla somma minima necessaria per la riproduzione della forza-lavoro. Del resto le virtù della carità pubblica per il mantenimento dell’ordine sociale sono ben note, oltre che al parroco, ad ogni sobrio difensore dell’accumulazione capitalistica. Camillo Benso conte di Cavour proclamava l’assoluta necessità di stabilire il principio della carità legale: “Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale, applicata secondo questo principio, può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale”. La proporzione tra il salario pagato dal padrone e la parte assistenziale compensata dalla parrocchia, o dallo stato, indica due cose: i. quanto il salario contrattuale si possa abbassare così sotto il suo minimo; ii. in che misura il lavoratore sia composto di “salariato” e di “povero”, trasformato in servo della fondazione parrocchiale “non profit” e dello stato assistenziale. “Fu questo un modo brillante per trasformare il lavoratore salariato in uno schiavo e il fiero libero yeoman di Shakespeare in un povero”.

Dalla vecchia legge destinata soprattutto ai distretti agricoli, si passò alla nuova per gli operai dell’industria. E ora, potremmo aggiungere noi, all’ultima “legge sui nuovi poveri” per i lavoratori dei servizi - dai cosiddetti “lavori socialmente utili” alle nuove forme contrattuali (tempo parziale, ingresso, formazione, interinato, ecc.). Ma il criterio dell’intervento legislativo è sempre il medesimo: provvedere con l’assistenzialismo laddove il pauperismo divenga permanente, anziché intermittente.

Se oggi, dunque, il tema del salario minimo è spesso associato a quello dei lavori socialmente utili o comunque a qualche altra forma di “garanzia” per i disoccupati, rivolto prevalentemente a lavori non qualificati e non competitivi, di fronte alla crisi dell’industria inglese del secolo scorso i padroni avevano affrontato il problema sostituendo l’antica elemosina, il sussidio in denaro, con le “case di lavoro”. Lì le condizioni di lavoro e di vita (salario, mense, alloggi, ecc.) erano molto peggiori di quelle normali degli occupati, nei cui confronti quindi l’accettazione del lavoro nelle “case” da parte dei disoccupati costituiva una gravissima minaccia di concorrenza: ed era ciò che appunto volevano i padroni. Tanto erano infami le condizioni che molti disoccupati, piuttosto che andare nelle “case di lavoro”, preferivano compiere piccoli reati per finire in prigione, dove si dormiva e mangiava meno peggio! (“viva viva la galera, ci dà il pane verso sera!”, dice un proverbio carcerario romano). Forse per questo il ministro italiano della giustizia ha proposto i lavori socialmente utili come condanna alternativa al carcere!

É importante capire quale fosse la logica, già allora, della legge sui lavori pubblici. Essa era applicata attraverso il controllo esercitato da un Comitato d’assistenza in mano alla borghesia. Questa authority (così si chiamerebbe oggi) teneva d’occhio i lavoratori, offriva agli operai espulsi dalle fabbriche tutti i lavori di pubblica utilità, non qualificati, ai quali potessero essere adibiti (costruzione di strade, fogne, canalizzazioni, pavimentazioni, impianti idrici, ecc.) per ricevere in cambio il loro sussidio minimo dalle autorità. Nonostante che l’aiuto da parte dello stato fosse invocato dai lavoratori stessi, in realtà - scrivevano i commentatori dell’epoca - quello era un sussidio agli industriali. Infatti, se un salario vergognosamente misero fosse stato offerto a un disoccupato per un altro lavoro e il lavoratore non avesse voluto accettarlo, “perché il guadagno sarebbe stato soltanto nominale e il lavoro invece straordinariamente duro” (secondo il rapporto dell’ispettorato del lavoro, 1863), il Comitato d’assistenza lo avrebbe escluso automaticamente dalla lista dei disoccupati (clausole analoghe sono riproposte ancora adesso). Erano “tempi d’oro questi per i padroni - commenta Marx - in quanto i lavoratori erano costretti a morire di fame o a lavorare a qualsiasi prezzo che fosse più vantaggioso ai borghesi: e i Comitati d’assistenza erano i loro cani da guardia”. [Giugni, Prodi, Treu, Mastella, Authority o Agenzie per il lavoro ... de te fabula narratur: va bene la convergenza d’intenti per lorsignori, ma non si capisce allora che c’entrino invece i comunisti con salario minimo e dintorni?]. 

Si legge che la maggioranza dei lavoratori, ridotti alla fame e alla disperazione, accettavano “volonterosamente” qualsiasi genere di lavoro pubblico. La legge prevedeva le forme di finanziamento pubblico, statale e locale, e le norme per l’esecuzione dei lavori. I signori borghesucci - osserva Marx - traevano da tale stato di cose un doppio profitto: i. ottenevano il denaro per l’esecuzione delle opere a un interesse eccezionalmente basso; ii. davano ai lavoratori una retribuzione di gran lunga inferiore a un salario normale. Conseguenze analoghe si avevano a seguito di altri interventi assistenziali sul salario. Era il caso del “calmiere” sul prezzo del pane, gestito attraverso un fondo costituito emettendo obbligazioni garantite dal comune e coperte con raccolta di dazî locali in aggiunta ai trasferimenti di imposte erariali. Ancora una volta il risultato era che la popolazione locale doveva pagare quel che risparmiava sul pane con maggiori imposte indirette e quella dell’intera nazione con la tassa sui poveri a favore della metropoli in cui il calmiere operava. L’esperimento si rivelò un fallimento completo, favorendo la speculazione nella raccolta dei fondi necessari e nella costruzione, in appalto, dei depositi di grano, il che comportò il conseguente rialzo del prezzo del pane: benché il decreto fosse presentato come “provvidenza socialista” per i proletari delle città.

Ecco di che pasta è fatto un simile “socialismo” assistenziale minimo! Viceversa, era del tutto logico, da parte degli industriali, dedurre dal salario le sovvenzioni pubbliche ricevute dai lavoratori grazie alla legislazione “sociale”, considerandole come parte integrante del salario [cfr. Il salario sociale, Comunismo in/formazione # 3, Laboratorio politico]. E questo è il punto: nell’esatta teoria marxiana del salario (sociale) come valore globale di classe della forza-lavoro, se non si riesce a incidere positivamente su tale valore, ogni altra pretesa “garanzia” di maggior reddito non può che risolversi in un trasferimento da una voce salariale all’altra - ossia in un riprovevole e pacchiano gioco delle “tre carte”.

É di un siffatto trucco che sembrano non avvedersi quanti, recentemente, nei movimenti di sinistra (partitici, sindacali, autorganizzati e di centri sociali) hanno fatto riapparire la rivendicazione del reddito garantito. Tra le varie argomentazioni addotte c’è chi sostiene che tale forma di reddito costituirebbe una nuova forma di statuto per il cosiddetto “lavoratore postfordista”. Esso, infatti, nella sua condizione di precarietà generalizzata è privo di un luogo certo (la vecchia fabbrica) dove poter rendere effettive le norme di difesa dallo sfruttamento e dalla rappresaglia capitalistici. A fronte di questo problema il presunto “reddito garantito” servirebbe dunque a proteggere il singolo indipendentemente dal luogo determinato di occupazione, assicurandogli un “minimo” di sostegno, una protezione di base.

Ma, a parte i problemi della composizione di classe generati dalle mutazioni indotte dalle recenti ristrutturazioni tecnologiche, ciò che è più importante è che le questioni salariali non sono facilmente raggirabili con cure che rischiano di rendere cronica la malattia. Se immaginiamo infatti che si riesca a conquistare un reddito minimo, da un punto di vista quantitativo, qualora tutte le altre variabili non mutino, si dovrebbe ottenere un’espansione del monte-salari (salari da lavoro più redditi garantiti), che richiederebbe una forza del proletariato che non sembra essere quella propria di una fase in cui i salariati disoccupati accedono sommessamente all’assistenza pubblica.

La soglia minima del reddito garantito, dunque, sarebbe con ogni probabilità attratta verso il basso e sottoposta al ricatto dell’eliminazione del sussidio da un giorno all’altro. Sorgerebbero quindi inarrestabilmente lavori precari (più o meno neri) ad alto saggio di sfruttamento. Così la spaccatura tra lavoro e non lavoro non solo rimarrebbe insanata ma peggiorerebbe, non migliorando i rapporti di forza a favore della classe dei salariati. Inoltre, il permanere della classe in una posizione di divisione e di ricatto favorirebbe di certo anche la compressione dei salari da lavoro ridimensionando il monte-salari che in primo momento si presumeva in espansione. E così si ritornerebbe da capo a dodici con un plusvalore complessivo espanso, rapporti di forza sfavorevoli e salario sociale globale ridotto.

Da quanto detto risulta quindi chiaro che la parola d’ordine del reddito garantito, malgrado astrattamente possa essere considerata un mezzo per redistribuire quote di plusvalore espropriato, nella realtà non sanando la divisione tra lavoro e non lavoro lascia i salari in balia delle decurtazioni più selvagge senza poter opporre alcuna valida resistenza. Anzi, se il “salario minimo” si accompagna a forme di lavoro di massa non qualificato - come nelle antiche “case di lavoro” - la compressione dei salari normali al di sotto del valore della forza-lavoro diviene conseguenza immediata e necessaria della concorrenza di quelle forme di lavoro precario e sottopagato. Una volta espulsi dai luoghi di produzione del capitale - dove il salario minimo sia quello pienamente rispondente alla “norma” del rapporto salariale di vendita della forza-lavoro al suo valore - l’esercizio dell’antagonismo diventa più problematico e il suo esito massimamente incerto. Quale antagonismo può esercitare, di norma, un pensionato se non sfogarsi con l’impiegato della posta? Quale antagonismo esercitano i percettori di reddito assistito britannici se non una tragica rivolta ogni dieci anni?

Se si tiene giustamente conto, da un lato, della massa salariale sociale ottenibile in base alla forza di classe rispetto, dall’altro, all’inevitabile trasferimento interno tra voci salariali allorché non si abbia la forza di accrescere quella massa, aggiungere alla parola d’ordine del “salario minimo garantito”, sganciato dal lavoro salariato, quelle connesse con la prestazione di “lavori socialmente utili” in una “riduzione del tempo di lavoro”, è perfetta incoerenza e il truffaldino “gioco delle tre carte” è fatto! Dato che la pressione da esercitare sui profitti è sempre la stessa e il risultato che se ne ricava può essere speso o in riduzione del tempo di lavoro o in reddito sociale o in occupazione o nel recupero di livelli “normali” di salario, se tale pressione fosse capace di strappare il finanziamento del “reddito minimo garantito” per tutti i disoccupati tanto varrebbe finanziare la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario sociale e di intensità lavorativa, con aumento dell’occupazione (su tutti questi temi cfr. Fuorimercato, Comunismo in/formazione # 10). É così facilmente dimostrato come i problemi del salario, da sempre e ancora oggi, non potrebbero essere risolti con alcuna legislazione in materia di “reddito minimo garantito”; in mancanza della pressione esercitata dalla conflittualità sociale, infatti, esso può solo erodere, e solo provvisoriamente, altre componenti del salario sociale di classe anziché il plusvalore, in una forma di invisibile “solidarietà coatta” tra poveri imposta e mascherata dalla forza e dagli interessi padronali.

La “legge sui poveri” - sosteneva Ricardo, così come noi potremmo dire per ogni altra provvidenza assistenzialistica - tende fatalmente a “trasformare la ricchezza e la forza in miseria e debolezza”. In luogo della lotta di classe subentra la “questione sociale” - la panacea del profeta Lassalle - o lo “stato sociale”, formule da giornalisti (per dirla con Marx). Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società, “l’organizzazione socialista di tutto il lavoro sorge dall’aiuto dello stato”. Credere che si possa costruire una società nuova grazie all’assistenza statale, come si costruisce una ferrovia, è degna presunzione di Lassalle e dei suoi posteri! Così pure Guesde ritenne necessario imporre alcune inezie ai lavoratori francesi, come il salario minimo stabilito per legge, tanto che Marx gli disse: “se il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare un qualsiasi programma”. La cosa più scandalosa non è nell’aver inserito nel programma simili specifiche cure miracolose, ma nell’aver abbandonato il punto di vista del movimento di classe. E dire che già i Cartisti rifiutavano gli aiuti esterni, l’ipocrisia delle belle promesse, chiedendo solo il potere di aiutarsi da sé.

Di fronte alla crisi l’assistenza spinge i lavoratori all’”egoismo”, a non far nulla piuttosto che lavorare, all’isolamento sociale e politico e al qualunquismo, nonostante che il minimo di reddito “garantito” sia al disotto del valore normale della forza-lavoro “considerato dai lavoratori stessi come il minimo del salario. É per tale ragione che i sindacati non permettono mai ai loro aderenti di lavorare per un salario inferiore al minimo” (J.T.Dunning, del sindacato rilegatori, 1860).

[l.n. - gf.p.]

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