Terrorismo in Francia. Anche noi atei non possiamo più essere silenti

Terrorismo in Francia. Anche noi atei non possiamo più essere silenti

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di Antonio Di Siena

Riguardo il barbaro attentato di Nizza più che una considerazione vorrei fare una riflessione preliminare. 

La lunga scia di sangue del terrorismo islamico in Europa affonda le proprie radici nell’immigrazione. Un processo che viene da lontano ed è certamente legato a doppio filo con le guerre imperialiste, il colonialismo, lo sfruttamento e il modello economico. 

Per molti anni questo processo di trasformazione della nostra società si è retto su un assunto: l’esistenza del tanto celebre quanto mitologico Islam “moderato”. Quella corrente religiosa che, secondo la narrazione multiculturalista, sarebbe maggioritaria, pacifica e molto ben disposta alla laicità e alla tolleranza. Il che, almeno in un primo momento, è stato certamente vero. Quantomeno in parte e in apparenza. 

Ma questa rappresentazione semplificatrice a un certo momento è andata a sbattere con una realtà che dice l’esatto contrario. E cioè che l’Islam ad un certo momento della sua breve vita in Europa ha scelto di non integrarsi. 

Un rifiuto che non ha precedenti in tutta la storia dell’immigrazione mondiale (penso in primis a italiani, ispanici e africani negli Usa) e che dimostra come gli immigrati musulmani, ad un certo punto della storia recente, abbiamo deciso arbitrariamente che, con noi, non può esserci integrazione.

Una decisione assunta sulla base del convincimento che l’Islam sia eticamente e filosoficamente superiore a un occidente da cui non hanno niente da imparare. E da cui devono difendere la purezza della loro religione (che ricordiamolo non è solo religione per come la intendiamo noi, ma è anche Stato, cittadinanza, popolo, nazione). 

L’ennesimo attentato che oggi sconvolge l’Europa (non la sola Francia quindi, ma l’intero continente che si riconosce nella laicità, nell’illuminismo, nella separazione fra Stato e Chiesa e tra Fede e Ragione) non è figlio della pazzia. E soprattutto - e va detto chiaramente - non è figlio della povertà, della marginalità, dei ghetti e delle banlieue. No, non lo è. E chi ancora lo sostiene dimostra di non voler capire il problema dove sta. 

Perché quando razzismo e ghetti esistevano davvero, quando in Georgia il Klan impiccava i neri; quando a New Orleans gli italiani venivano linciati per il solo fatto di essere italiani; quando in Australia le case dei greci venivano bruciate; o quando a Torino non si affittavano le case ai calabresi, nessuno si è mai sognato di prendere un coltello e andare a decapitare un americano, un australiano o un piemontese in mezzo alla strada. 
E men che meno se lo sono sognato i loro figli, gli immigrati di seconda o terza generazione. 

Al contrario tutta questa gente ha promosso incessantemente l’integrazione, ha lottato per l’uguaglianza.

Questo i musulmani in quanto musulmani (Malcolm X infatti lottava per gli afroamericani), in massima parte, non l’hanno mai fatto.

A dimostrazione che la jihad non nasce dall’emarginazione, dal razzismo e dal disagio sociale, né tantomeno dalla povertà. E la prova di ciò non risiede tanto nell’identità di numerosi attentatori benestanti e figli di immigrati benestanti. Quanto piuttosto dalla totale assenza di tali rivendicazioni emancipatrici e presunte istanze egalitarie nei proclami dei jihadisti stessi. 

I jihadisti infatti non denunciano mai la loro condizione di povertà, la disoccupazione, l’assenza di integrazione e di prospettive. Non prendono posizione contro lo sfruttamento del lavoro, contro la società borghese e classista, contro le disuguaglianze. 
In altre parole non denunciano il sistema produttivo capitalista.

Non l’hanno mai fatto.

E non l’hanno mai fatto perché a loro di queste istanze politiche e sociali non gliene frega niente (fatte salve le solite eccezioni, ma sul fatto che un musulmano “laico” sia in re ipsa un non-musulmano ho già scritto in precedenza e lì rimando). 

Il terrorismo islamico non combatte le storture dell’Occidente. Odia l’Occidente in quanto Occidente. E lo attacca non perché cristiano, ma in quanto laico. Perché mette tutte le religioni sullo stesso piano, quello dell’uguaglianza formale e sostanziale. Rivendicando la supremazia, la superiorità dell’Islam su tutto il resto. Specialmente sulla nostra società secolarizzata.  

Per questa ragione gli eventi drammatici di queste ore, di questi tempi, non riguardano solamente i cristiani o i conservatori. Ma tutti quanti noi, atei compresi, perché l’attacco è rivolto all’essenza stessa della nostra civiltà. Questa non è la millenaria contrapposizione tra la croce e la mezzaluna, tra Gesù e Maometto. È molto di più. È lo scontro fra due modi di concepire il mondo. 

Uno è fondato sulla libertà. Di pensiero, di parola, di espressione, di orientamento politico, religioso, sessuale. Sull’uguaglianza, tra simili e tra diversi, sulla parità fra uomo e donna. Sulla democrazia, che prescinde l’appartenenza religiosa dei singoli. Sulle norme scritte dagli uomini e non rivelate dal divino. 

L’altro no.

L’altro semplicemente rifiuta tutto questo. Legittimamente per carità, almeno finché non si mette a far mattanza di innocenti. 

Questo rifiuto è un fatto. E dovrebbe essere il punto di partenza di qualunque discorso, analisi, ragionamento o discussione si voglia intavolare per comprendere quella che, a tutti gli effetti, è una battaglia ideologica.

Una guerra delle idee che pertanto va combattuta in primis attraverso la comprensione dei fenomeni. E per farlo efficacemente serve recuperare quegli strumenti di cui, noi ‘occidentali’, siamo andati orgogliosi per secoli. 

La capacità di saper analizzare le cose criticamente, laicamente e soprattutto senza dogmatismi.  

Diversamente resteremo fermi altri vent’anni alla retorica del pazzo isolato o del gruppetto disadatto. E continueremo inermi a piangere decine di altri morti innocenti.

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