TUTTE LE FAKE NEWS DI MARATTIN SUL “FINANZIAMENTO MONETARIO”

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di Thomas Fazi

 

Benvenuti alla seconda puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin” (la prima puntata la trovate qui: https://www.facebook.com/thomasfazi/videos/2341908382568953/).
 

Oggi prendiamo in esame l’ultima “video lezione di economia” di Marattin (https://www.facebook.com/LuigiMarattinPD/videos/2701637036536521/), in cui il consigliere economico del PD si propone di rispondere «ad una domanda che va molto di moda tra ciarlatani e finti economisti vari, cioè perché non possiamo semplicemente stampare tutta la moneta che vogliamo?».


La risposta è semplice: perché altrimenti faremmo la stessa tragica fine di tutti quei paesi i cui governi «hanno ceduto alla tentazione di stampare soldi», con il risultato che si sono ritrovati «l’inflazione al miliardo per cento» [sic] e «l’economia in rovina». Gli esempi portati da Marattin sono, ça va sans dire, i soliti noti cari agli amanti del genere “piaghe d’Egitto da iperinflazione”: la Repubblica di Weimar, lo Zimbabwe e il Venezuela. O, come si dice in gergo tecnico, lo Zimbabweimaruela.


«I tutti questi casi – dice Marattin – la molla che ha fatto scattare tutto questo è il governo che aveva bisogno di soldi e ha pensato di stamparli», facendo schizzare l’inflazione alle stelle. Marattin passa poi a spiegare il meccanismo economico, ahem, alla base di questo di questo fenomeno: «La moneta sottostà alle normali leggi di domanda e offerta di qualunque altro bene. Prendiamo i cellulari. Se il mondo fosse inondato di offerta di cellulari il prezzo di questi si ridurrebbe fino ad arrivare a zero. Per la moneta è la stessa cosa. Se chi controlla l’offerta di moneta – cioè la banca centrale – comincia a stamparne in quantità molto elevate, quindi ad aumentare l’offerta di moneta, il valore di quella moneta va rapidamente a zero».


Tutto questo spiegherebbe perché «la leggenda per cui se a un governo servono i soldi basta stamparli e tutto risolve è una leggenda che nell’ultimo secolo ha portato distruzione, danni permanenti all’economia ed è una pericolosa illusione che viene spacciata da chi non ha idea di come funzioni un sistema economico».


Che dire? In pochi secondi, come al suo solito, Marattin è riuscito a inanellare talmente tante scemenze, banalità e fake news che non sappiamo neanche da dove iniziare. Ma forse la cosa migliore è iniziare dalla “spiegazione teorica” offerta da Marattin, poiché da quello si può facilmente evincere l’infondatezza di tutto il suo discorso.


L’idea che la banca centrale controlli l’offerta di moneta (la quantità di moneta in circolazione nel sistema economico) e che dunque “stampare moneta”, cioè aumentare la base monetaria (le riserve detenute dalle banche commerciali), generi inflazione – uno dei punti cardine della teoria monetarista di Milton Friedman, di cui presumiamo Marattin sia un ammiratore – è ormai smentita anche dalla teoria mainstream e persino dalle stesse banche centrali.


Tralasciando l’improprietà e la malafede dell’uso del termine “stampare moneta” – che ha un evidente uso propagandistico ma nessuna attinenza con la realtà, visto che il grosso della base monetaria e della moneta in circolazione è costituito da moneta elettronica (uni e zeri su un computer) e non da contante, l’unica forma di moneta che viene effettivamente stampata –, è ormai unanimemente riconosciuto che l’offerta di moneta non dipende dalla creazione di moneta da parte della banca centrale, ma dalla domanda di moneta da parte dell’economia e dalla “propensione al prestito” (o propensione al rischio) delle banche.


Sono infatti queste ultime, nelle moderne economie, a determinare il grosso della moneta in circolazione. Funziona più o meno così. L’imprenditore si rivolge alla banca per ottenere in prestito il denaro per pagare i lavoratori. La banca valuta la capacità di rimborso dell’imprenditore. Se la banca alla fine dell’istruttoria decide di concedere il prestito, non fa altro che aprire una linea di credito, ovvero un conto dal quale l’imprenditore può attingere fino a una certa somma. L’imprenditore a questo punto dà ordine alla banca di effettuare dei trasferimenti (bonifici) sui conti dei suoi dipendenti.


La domanda sorge spontanea: da dove viene il denaro che la banca presta all’imprenditore? La risposta è: da nessuna parte. O, se volete, “dal nulla”. Oggi, dunque, non sono solo le banche centrali a “stampare moneta” ma anche le banche commerciali, che non sono minimamente vincolate nel concedere prestiti dall’ammontare delle riserve depositate presso la banca centrale; le banche, infatti, prima effettuano il prestito e solo in seguito, se necessario, si rivolgono alla banca centrale, che è costretta ad accomodare la richiesta di riserve da parte del sistema bancario. Per la stessa ragione, aumentare le riserve detenute dalle banche commerciali – per esempio attraverso le operazioni di quantitative easing – non contribuisce minimamente ad aumentare il credito all’economia, come abbiamo visto in questi anni. Questo forma di creazione monetaria privata non pare essere un problema per Marrattin, nonostante sia stata una delle ragioni scatenanti della crisi finanziaria del 2008.


Quanto detto, comunque, dovrebbe essere sufficiente a smentire l’idea che “stampare moneta”, cioè aumentare la base monetaria, generi inflazione. Curiosamente, è lo stesso Marattin a riconoscerlo poco dopo – smentendosi da solo – quando dice che «sono dieci anni che tutte le banche del mondo stanno stampando moneta eppure non solo non abbiamo iperinflazione ma facciamo anche fatica ad avere inflazione». Marattin spiega che questo avviene perché – per le ragioni sopraelencate – «la moneta si ferma nei bilanci delle banche» e dunque «questi soldi non vanno all’economia reale», perché «se le famiglie e le imprese non hanno fiducia nel futuro non chiedono prestiti e non investono». Su questo almeno siamo d’accordo.


Non è chiaro però cosa sarebbe necessario per Marattin perché le famiglie e le imprese tornino a chiedere prestiti (ammesso e non concesso che la ripresa economica debba basarsi su un aumento del debito privato ma sorvoliamo); presumibilmente il solito mix di austerità fiscale, liberalizzazioni e deregolamentazione del lavoro che il PD sostiene anni; o forse nulla, visto che, secondo il ragionamento di Marattin, se ciò dovesse accadere avremmo, è lecito immaginare, iperinflazione. Ad ogni modo non è questo il punto che ci ci interessa. Ciò che è interessante è che Marattin non sembra riconoscere che questo smentisce quanto detto da lui stesso poco prima.


Ma andiamo avanti e cerchiamo di districarci nel pensiero – ahinoi piuttosto confuso – di Marattin. Che “stampare moneta” sia (iper)inflazionistico solo quando serve ad agevolare le politiche fiscali del governo, come il nostro sembra suggerire all’inizio del video? Per capire perché anche questa sia una colossale fake news può essere utile un esempio pratico. Sebbene i dettagli istituzionali varino da nazione a nazione, in genere i governi che emettono la propria valuta spendono attingendo a un conto che hanno presso la banca centrale, che di per sé è una creatura dello Stato, indipendentemente dallo status giuridico della stessa (cioè dalla sua indipendenza formale).


Quando deve effettuare un pagamento, il Tesoro ordina alla banca centrale di trasferire dei fondi dal suo conto al conto del destinatario della spesa pubblica presso la banca privata dello stesso. Allo stesso modo, quando il fisco riceve delle entrate, chiede alla banca centrale di registrare le entrate sul conto di tesoreria presso la banca centrale. Ora, la prassi comune vuole che i governi dispongano di fondi a sufficienza sul loro conto presso la banca centrale prima di poter spendere e, se non vi sono fondi a sufficienza sul conto (cioè se le uscite superano le entrate), che “coprano” il disavanzo (la differenza tra entrate e uscite) attraverso l’emissione di titoli di debito. Ma trattasi, appunto, di una convenzione, non di una necessità tecnica.


Non solo la banca centrale, in un paese che emette la propria valuta (dunque non nei paesi dell'eurozona) può sempre intervenire per sopperire a una eventuale carenza di acquirenti privati, acquistando i titoli essa stessa; volendo, la banca centrale potrebbe semplicemente soddisfare il fabbisogno del Tesoro accreditando i conti bancari dei destinatari della spesa pubblica, cioè “monetizzando” la spesa pubblica in base agli obiettivi di politica economica del governo, indipendentemente dalla posizione di bilancio dello stesso (cioè che questa sia deficitaria o meno), senza che il Tesoro emetta titoli di debito per un valore equivalente.


Il finanziamento monetario della spesa pubblica secondo le due modalità sopraindicate viene definito nel gergo tecnico overt monetary financing (OMF). A sentire Marattin, si tratterebbe di una pratica che rasenta la follia economica e che conduce inevitabilmente all’inferno iperinflazionistico dello Zimbabweimaruela. Ma la verità è che tale pratica fu la norma nel corso di buona parte del secondo dopoguerra.


Fino agli anni Settanta, infatti, nella maggior parte dei paesi sviluppati (inclusa l’Italia), una completa autonomia della banca centrale dal governo sarebbe stata inconcepibile. Al riguardo, risulta particolarmente illuminante quanto veniva sostenuto in un documento governativo britannico del 1959, il “rapporto Radcliffe”, che per molti anni dettò la linea in materia di politica monetaria nel paese. Gli estensori del documento rigettarono esplicitamente l’idea secondo cui «l’interesse pubblico richiederebbe che alla banca centrale venisse concessa una completa autonomia dall’influenza politica», in quanto la politica economica del governo «deve comprendere la programmazione generale della politica monetaria e delle relative operazioni e che le politiche perseguibili dalla banca centrale devono dalla prima all’ultima essere in armonia con quelle dichiarate e difese dai ministri della Corona responsabili verso il Parlamento».
 



In quegli anni questa posizione rappresentava il consensus in pressoché tutti i paesi sviluppati. Non a caso, il periodo che va dagli anni Trenta alla fine degli anni Settanta fu caratterizzato praticamente ovunque da un’intensa cooperazione monetario-fiscale che includeva forme dirette e indirette di finanziamento monetario (in cui cioè il 40-50 per cento del debito pubblico complessivo era finanziato dalla banca centrale e dalle istituzioni finanziarie domestiche, che erano “obbligate” a investire una certa quantità di denaro in titoli pubblici).


Proprio quel periodo coincise con i livelli più bassi di rapporto debito/PIL nel corso di tutto il XX secolo. Ma nei due secoli precedenti la situazione non era così diversa. Come scrive Gallino, «le banche centrali sono state create nei secoli per svolgere soprattutto una funzione: creare il denaro necessario per coprire i disavanzi del bilancio statale, ripagare i debiti pubblici giunti a scadenza, finanziare la spesa sociale, promuovere l’occupazione».


Negli ultimi anni, vari esperti – tra cui Adair Turner, William Buiter, Richard Wood, Martin Wolf, Paul McCulley e Zoltan Pozsar, Steve Keen, Ricardo Caballero, John Muellbauer, Paul Krugman e persino l’ex governatore della Fed Ben Bernanke, che ha recentemente indicato «un’espansione fiscale finanziata con la creazione di moneta», cioè la monetizzazione del deficit senza contestuale emissione di titoli di debito per un valore equivalente, come «la migliore alternativa» in quei casi in cui la domanda aggregata sia particolarmente deficiente – hanno rispolverato l’idea di una qualche forma di finanziamento monetario del disavanzo pubblico, indicandola come la soluzione più ottimale nell’attuale contesto delle economie avanzate, proprio perché comporterebbe un aumento del deficit, e dunque della domanda, senza far aumentare il debito pubblico.


Trattasi, a ben vedere, di una soluzione meno eretica di quanto potrebbe apparire a prima vista (soprattutto se consideriamo che le operazioni di quantitative easing possono essere considerate una forma di parziale monetizzazione de facto del debito, giacché è lecito presumere che la quota di debito sovrano attualmente detenuta dalle principali banche centrali del mondo rimarrà a bilancio delle stesse a tempo indefinito).


All’avviso di chi scrive sarebbe la soluzione istituzionale maggiormente auspicabile ai fini di un maggiore controllo democratico sull’economia. Come scrive Massimo Pivetti, in un siffatto regime economico-istituzionale «la politica monetaria tornerebbe a essere una componente della politica economica generale del governo, subordinata all’orientamento di politiche fiscali e di bilancio finalizzate al sostegno dei livelli occupazionali, al rafforzamento della protezione sociale e a una distribuzione del reddito più equa».


Che dire, però, dell’affermazione di Marattin secondo cui tale pratica sarebbe intrinsecamente (iper)inflazionistica? La verità è che non vi è ragione di ritenere che una politica di questo tipo sarebbe più inflazionistica di altre politiche espansive, giacché è la spesa pubblica in sé che ha il potenziale di generare spinte inflazionistiche, indipendentemente da come questa è finanziata (tramite la tassazione, la vendita di titoli di debito al settore privato e/o alla banca centrale o la creazione di moneta non accompagnata da un’emissione di titoli per un valore equivalente).


Conseguentemente, l’impatto del finanziamento monetario sulla spesa nominale e quindi potenzialmente sull’inflazione dipende interamente dalle dimensioni dell’operazione: a condizione che la crescita della spesa non superi la capacità produttiva dell’economia, non c’è motivo di attendersi spinte inflazionistiche. Per intenderci, se un governo continuasse a incrementare la spesa una volta raggiunta la piena occupazione – e più in generale una volta che siano impiegati tutti i fattori produttivi –, si avrà inflazione. Ma sarebbe un comportamento del tutto irrazionale. E lo dimostra l’esempio dei numerosi paesi che nel secolo scorso hanno fatto ricorso al finanziamento monetario per sviluppare con successo la propria economia senza generare iperinflazione.


E i famosi tre casi di iperinflazione – Weimar, Zimbabwe e Venezuela – citati da Marattin allora? Non sono forse la dimostrazione dei pericoli dello “stampare moneta per finanziare le attività del governo”? La risosta, in una parola, è no. Nei tre esempi in questione, infatti, non è stata la spesa pubblica in sé a generare l’inflazione quanto la combinazione di due elementi: un grosso debito denominato in valuta estera (che ha costretto i governi a stampare valuta locale per acquistare valuta estera) e un crollo della capacità produttiva (per varie ragioni: la guerra e le riparazioni successive nel caso della Germania; una controversa riforma fondiaria nel caso dello Zimbabwe ecc.). Dunque parliamo di casi limite che difficilmente si applicano a un “normale” paese avanzato, che infatti, come detto, hanno fatto ampiamento uso del finanziamento monetario senza incorrere nei suddetti problemi, ma anzi utilizzandolo con successo proprio per aumentare significativamente la capacità produttiva e dunque ridurre i rischi di inflazione da domanda.


Insomma, ancora una volta Marattin ha confermato una delle grandi massime dei nostri tempi: in materia economica, nessuno è più ignorante dei competenti.

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