Azione politica e sindacale? Un binomio imperfetto

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Azione politica e sindacale? Un binomio imperfetto

 

di Federico Giusti

La contrattazione collettiva ha salvaguardato il potere di acquisto dei salari? Possiamo girarci dall’altra parte davanti alla guerra e al genocidio? Riflessioni sulla nostra inadeguatezza

La risposta è negativa, non esiste una contrattazione nazionale buona e una decentrata cattiva perché a disciplinare entrambi sono delle regole inique dettate negli ultimi 50 anni per indebolire il potere di acquisto e di contrattazione.

La svolta dell’Eur è arrivata nel momento di migliore salute dei movimenti conflittuali e sindacale e nel mezzo secolo successivo c’è stato l’arretramento complessivo delle nostre condizioni di vita e di lavoro.

Ma in tanti anni ci siamo dimenticati di quella controriforma in materia di lavoro e previdenza, delle regole inique a gestire la contrattazione e la stessa democrazia sindacale, sembra quasi che ci si debba adeguare a un sistema di regole prodotte dalla ristrutturazione capitalistica a partire dagli anni Settanta.

In questi mesi cresce la mobilitazione contro il genocidio del Popolo palestinese ma molti delegati e lavoratori impegnati sindacalmente sono assenti dalle piazze, incapaci di cogliere la stretta connessione tra l’azione conflittuale (tale dovrebbe essere e non certo appiattita sulle Rsu o sulle cause legali come invece avviene sovente) nei luoghi di lavoro e un ruolo più politico. Lo sperimentiamo noi stessi sul nostro territorio, prendiamo atto di una arretratezza politica e culturale che alla fine determina anche arrendevolezza sindacale (e viceversa).

Chi oggi pensa che si debba separare nettamente l’agire politico da quello sindacale commette un grave errore, non analizza la realtà e diventa un corpo estraneo specie con la finanziaria di guerra, europea e nazionale, alle porte. L’attacco portato alla democrazia sindacale nei luoghi di lavoro è un attacco politico

L’arretratezza sindacale e quella politica oggi sono strettamente connesse, potremmo anche sostenere, senza timore di smentita, che certe sovraesposizioni di natura politica servono ad occultare posizioni sindacali arretrate o la incapacità di guadagnare rapporti di forza a nostro vantaggio. Al contrario la mancata discesa in campo in ambiti politici va letta anche come incapacità di guardare alla realtà che cambia e ad un appiattimento su istanze sindacali anguste (chi pensa di cullarsi su qualche vittoria alle Rsu o su conquiste parziali avrà un amaro risveglio).

Chi poi tira in ballo logiche massimaliste (“non basta una ora di sciopero! non possiamo andare a rimorchio di questo o di quel sindacato di base”) dovrebbe chiedersi cosa intende mettere in campo con le proprie forze e non addurre ogni genere di motivazione per restare in sostanza fermo e inattivo davanti a una realtà in profonda involuzione che alla fine travolgerà anche il nostro stesso corpo militante.

Prendiamo ad esempio i contratti nella Pubblica amministrazione, il buono mensa, la manovra governativa sulle pensioni, una volta analizzato il contesto quanti dei nostri lavoratori avrà percepito la gravità della situazione cambiando anche il tradizionale approccio all’azione sindacale? Quali sono le proposte avanzate per non subire una contrattazione al ribasso?

Queste sono alcune riflessioni che avrebbero dovuto essere ad uso interno ma che invece è bene trasformare in riflessione collettiva. Sarebbe un successo oggi dare vita a coordinamenti di lavoratori contro l’economia di guerra, un segnale di unità sui contenuti e sulle pratiche conflittuali oggi necessarie e indispensabili per non consegnare la classe lavoratrice alle logiche della guerra e del militarismo.

Urge discutere in fretta di tutte le iniziative che intendiamo costruire senza pensare alla natura salvifica dello sciopero generale di fine novembre che potrebbe per altro arrivare troppo tardi rispetto all’agenda politica che ci impongono i dominanti.

E men che mai cullarsi sulla illusione che stare nei luoghi di lavoro e basta sia sufficiente a contrastare la guerra, la erosione del potere di acquisto e di contrattazione, l’innalzamento dell’età pensionabile.

 

 

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