C’è ancora spazio per la libertà e la democrazia costituzionale? A partire da Lo Stato del potere di Carlo Iannello
di Carlo Magnani - La Fionda
Avevamo imparato ad apprezzare Carlo Iannello durante l’infelice periodo della pandemia, quando, in compagnia di pochi altri costituzionalisti (Alessandro Mangia, Vincenzo Baldini, Ginevra Cerrina Feroni, per citare i nomi più autorevoli e scusandoci per le eventuali omissioni) si era segnalato per l’approccio critico alle politiche imposte dai governi Conte II e Draghi.
All’epoca, in un prezioso libretto[i], avvertiva come l’art. 32 della Costituzione fosse sottoposto ad una torsione interpretativa così anomala ed estrema da mettere in causa, per il futuro, la sua applicazione quale presidio della libertà dell’habeas corpus. Questo nuovo libro, dal suggestivo titolo Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà, edito da Meltemi (impreziosito da una prefazione di Giancarlo Montedoro e da una postfazione di Sergio Marotta), allarga lo spettro di indagine ma resta fedele a quel nocciolo duro che si intravedeva già allora, rappresentato dalla difesa delle ragioni del costituzionalismo.
I lettori de La fionda troveranno in questa opera assonanze con il penultimo fascicolo cartaceo[ii] dedicato proprio alla situazione dello Stato costituzionale, potendo però approfondire ulteriormente aspetti di diritto pubblico e costituzionale lì necessariamente confinati solo ad alcuni contributi. La ricerca di Iannello costituisce una positiva novità nel panorama della scienza giuspubblicistica italiana, offrendo una definitiva lettura nel «nesso causale tra [le] politiche, che si definiscono comunemente neoliberali, e la profonda trasformazione del potere pubblico che ne è derivata»[iii].
La novità consiste appunto nell’assunzione piena di questo “nesso”, in maniera finalmente radicale viene quasi da dire, come generalmente gli studi giuridici – sia quelli più specialistici ma anche quelli costituzionalistici dedicati alla crisi della democrazia – non hanno sinora mai esplicitamente fatto. Il diritto costituzionale prende finalmente sul serio il neoliberismo e prova a farne il perno del ragionamento sulla crisi delle Costituzioni. Iannello può essere iscritto a quel filone del costituzionalismo progressista che vede nello Stato costituzionale democratico-sociale, fissato nella Carta del 1948, non solo uno strumento di garanzia giuridica ma anche un progetto di emancipazione sociale.
Nell’ambito di tale sensibilità sono maturate riflessioni critiche davvero importanti sull’impatto della globalizzazione sul costituzionalismo, dallo scritto quasi preveggente di Massimo Luciani sull’antisovrano negli ormai lontani anni Novanta[iv], sino alle ricerche ricche di suggestioni di Gaetano Azzariti[v]. Tuttavia, giunti a questo tornante della storia, il confronto non solo tra la realtà e il diritto, ma persino tra la vita delle istituzioni e la Costituzione richiede un salto di analisi. La società è così diversa dal progetto costituzionale che diventa persino imbarazzante o schizofrenico parlare alle nuove generazioni di attualità della Carta del 1948 o di “Costituzione più bella del mondo”: lo specchio rimanda un volto oramai irriconoscibile, offuscato quando va bene o più soventemente del tutto sfigurato.
Iannello allora tenta di spiegare la crisi della politica democratica e del costituzionalismo offrendo sia una fenomenologia che una genealogia del nuovo potere, che affonda per lui direttamente le radici nel neoliberalismo. Stato costituzionale di diritto e mercato sono i meta-soggetti protagonisti di questa ricerca che, pur toccando altre discipline quali l’economia politica, la filosofia politica e la politologia, resta del tutto fedele al metodo giuridico, come si riscontra dalla letteratura presente nelle note. Il rapporto tra Stato e mercato viene dispiegato lungo un percorso storico, genealogico, suddiviso in quattro fasi, che vanno dalla affermazione dello Stato liberale di diritto allo Stato costituzionale del welfare, per transitare poi nella affermazione del neoliberismo negli anni Ottanta e concludere nella situazione attuale, in cui si il neoliberismo si radicalizza e offre i suoi frutti più maturi.
Per quanto concerne i primi due momenti, Iannello, sfidando una pur corrente interpretazione, rinviene «una linea continuità tra l’idea ispiratrice dello Stato liberale e quella alla base dello Stato sociale e democratico novecentesco»[vi], che consiste nella funzionalizzazione del potere pubblico alla garanzia dei diritti della persona. Ciò che cambia è il catalogo dei diritti, ristretti ai bisogni della borghesia nello Stato monoclasse liberale e invece includenti anche i diritti sociali delle masse proletarie e contadine nello Stato del compromesso keynesiano. La Costituzione italiana disegnava pertanto un sistema di intervento pubblico nell’economia in maniera del tutto coerente con i valori personalisti ed egualitari collocati tra i principi fondamentali (artt. 2 e 3 Cost.). Così come la sovranità popolare (art. 1 Cost.) costituiva il necessario corredo della democrazia politica, assegnando una centralità assoluta al momento rappresentativo, cioè il Parlamento, che tramite i partiti politici diveniva il centro della politica. Il Giuridico e il Politico trovavano nel costituzionalismo novecentesco una formidabile espressione, diritti e democrazia erano il fulcro attorno a cui gravitava la vita sociale, anche quella delle forze economiche del mercato. Le riforme servivano a contenere l’economia a favore della società, e non, come è avvenuto in seguito, a contenere la società a vantaggio dell’economia.
Nel corso del Novecento era corretto enfatizzare la rottura fra Stato liberale e Stato sociale, Iannello, nell’approccio genealogico allo stato delle cose del presente, è invece costretto a spostare – molto opportunamente – la vera cesura giuridica nel consolidamento dello Stato neoliberale. La scienza costituzionale, anche quella progressista che più ha investito sul cambio di paradigma avvenuto con lo Stato pluriclasse del welfare, non può negare che è emersa «una “nuova” forma di Stato, “neoliberale”, che ha prodotto una radicale e profonda cesura con tutta la tradizione dello Stato moderno»[vii].
Si tratta di un passaggio chiave che costituisce forse il contributo di maggiore originalità del testo. Utilizzando la categoria di “neoliberismo” elaborata da Foucault nel celebre corso del 1978-1979 al Collège de France, si perviene a istituire una opposizione tra il liberalismo classico, quello della tradizione moderna, e appunto il neoliberismo. Il neoliberismo, infatti, non vede il mercato come un ordine naturale e spontaneo ma come un prodotto artificiale del diritto: rovesciando per certi versi persino la distinzione di Hayek tra cosmos, cioè ordine che risulta dalla regolarità dei comportamenti, e taxis, cioè l’ordine prodotto in maniera endogena da una azione esterna[viii]. Il mercato concorrenziale si converte nel paradigma unico della società e diventa così l’unico fine a cui devono tendere le istituzioni del potere pubblico. Iannello, che battezza questo ordine come «forma di Stato neoliberale» (uno dei pochissimi costituzionalisti ad impiegare tale categoria dogmatica), ne denuncia il carattere di vero e proprio rovesciamento dello Stato di diritto costituzionale: la missione dello Stato non è più conservare i diritti ma governare il dispositivo di funzionamento del mercato. Il Giuridico, cioè la legge astratta, diventa «regola del gioco del mercato»[ix]; mentre il Politico è ridotto ad amministratore dell’Economico.
Ne derivano determinate conseguenze nell’ambito del diritto pubblico, che qui indichiamo solo per cenni e che costituiscono la parte del testo dedicata alla fenomenologia del neoliberismo. In primo luogo, perde importanza la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, e questo è un effetto riscontrabile nella crisi della legge soppiantata dalla lex mercatoria prima e anche dalla lex digitalis oggi. Poi, la divisione dei poteri ne esce indebolita, ad esempio nella proliferazione di autorità amministrative (cosiddette) indipendenti che costituiscono ibridi regolatori-giudiziali al di fuori di ogni responsabilità politica. Infine, l’emarginazione degli organi della rappresentanza politica a cui è inibita l’attuazione di indirizzi politici che si discostano dall’ordine del mercato (quando soggetti politici alternativi alle élite acquisiscono qualche consenso scatta la scomunica del populismo).
La fenomenologia dello Stato neoliberale trova nel “caso Italia” e nella Unione Europea una fulgida epitome di trasformazione dell’ordinamento giuridico e costituzionale. Le riforme degli anni Novanta per il federalismo amministrativo diffuso, codificate poi al massimo livello nella riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione (voluta nel 2001 dalla sinistra al governo), hanno mutato il carattere universalista e solidale della Repubblica per adottare modelli di differenziazione territoriale. Non mancano appunti nemmeno alla proposta di premierato, come semplificazione leaderistica della forma di governo.
Si analizzano criticamente le dinamiche costituzionali prodotte dai governi tecnocratici, con le loro politiche di smantellamento della spesa pubblica per aderire alla Unione Europea e rispettare i parametri economici e i Trattati, fondati sull’economia sociale di mercato fortemente competitiva. Il processo di integrazione europea viene accostato alla emergente categoria di “governance” decostruendola come esempio di “non-governo” – in senso politico – da parte dei soggetti economici; infatti, «il diritto europeo è stato il motore giuridico che ha realizzato la destrutturazione dei poteri dei governi nazionali, senza costruire, nel contempo, un governo europeo dell’economia»[x]. Gli Stati, insomma, non governano più, almeno in Europa e in Occidente, sostituiti dal (non)governo dell’economia dei mercati finanziari, come ci ha insegnato Luciano Gallino[xi].
Ma questo è solo il mondo dell’altro ieri, quello che sta evolvendo in qualcosa di nuovo. A partire dalla crisi economica del 2011, per proseguire con la pandemia e gli eventi di guerra, si è diffusa l’idea della crisi del modello neoliberale, che vedrebbe addirittura un ritorno dello Stato.
Questa tesi non è condivisa da Iannello, che preferisce leggere il presente nei termini di una vera e propria radicalizzazione del modello neoliberale. In special modo, sul suolo europeo sfibrato da decenni di austerità come dogma infallibile, è sembrato giungere il tempo di un cambio di paradigma grazie all’alleggerimento dei limiti all’indebitamento con i prestiti erogati nell’ambito del Next Generation Eu divenuti PNRR. In verità, tali fondi «non sono destinati al finanziamento dei diritti sociali, ma si tratta di una spesa ammessa perché produttiva (il cosiddetto “debito buono”), cioè di fondi destinati al mercato, quindi alle imprese»[xii]. Le somme stanziate, del resto, non riguardano bisogni individuati dalle comunità locali, ma obiettivi di pianificazione sociale e territoriale che «obbligano i privati a gravosi oneri (politiche di transizione digitale e green)» a favore delle imprese. Le stesse modifiche agli artt. 9 e 41 della Costituzione servono ad attuare tali piani neo-dirigisti dell’economia, sia a favore della transizione verde che di una imminente economia di guerra[xiii].
Perché, per quanto possa apparire paradossale, la fase matura del neoliberismo dimostra un vigoroso profilo autoritario, fortemente compressivo delle libertà costituzionali, di tutte le libertà, comprese quelle economiche (Iannello lo chiama “conservatore” e persino lato sensu “fascista” alludendo alla distinzione novecentesca tra destra e sinistra che, ad avviso di chi scrive, andrebbe anche questa ormai del tutto rivisitata proprio alla luce di quanto contenuto nel testo). I processi di concentrazione del capitale[xiv] hanno raggiunto una formidabile efficienza e una pervasiva strutturazione istituzionale, così da costituire ormai una minaccia agli stessi presupposti del capitalismo classico.
Le libertà individuali sono sempre più emarginate, ristrette dentro un nuovo Stato amministrativo globale che usa le emergenze e la tecnologia digitale per disciplinare i cittadini. La resilienza è il rovescio del non-governo della finanza, non più diritti da opporre al potere ma un atteggiamento di docile adattamento alle dinamiche decise dal mercato. La libertà è suggerita, oggetto di “spinta gentile”, perché in realtà alternative non ce ne sono. Per Iannello viviamo in una fase post-liberale, con le libertà ormai al tramonto. E se c’è uno Stato ancora presente, quello è semmai lo stato di emergenza o di eccezione, sempre pronto ad essere attivato dalle élite globaliste.
C’è un capitolo, il IX, che meriterebbe un approfondimento a parte, a cui si può qui solo fare cenno in modo sintetico. Affronta il tema del diritto, e lo fa dichiarando l’esistenza di una «contraddizione insuperabile tra forma e contenuto del diritto»[xv], cioè di una discrasia tra procedure costituzionali tutto sommato salvaguardate e valori veicolati dalle decisioni, sempre meno politiche e sempre più tecnocratiche. A cambiare è il sistema di valori, non più la persona al centro ma il mercato; per cui «le istituzioni della tradizione liberal-democratica sono ancora salde e integre, ma i fini da esse perseguiti sono profondamene mutati»[xvi]. Due chiose. Primo punto. Il tratto nichilistico del diritto moderno, ben esplorato da Irti[xvii], può avere come esito necessario tale discrasia. Il filone del costituzionalismo democratico-sociale sembra avere assunto la Carta del ’48 da norma giuridica, sorta da vicende storiche, a entità spirituale intrascendibile, conferendole lo statuto di una sorta di “diritto naturale” immanente.
Ne deriva di certo una apprezzabile tensione civile e scientifica, che anima anche tale pregevole testo; ma se si vuole fissare qualcosa in eterno si deve guardare altrove. Secondo punto. Siamo davvero sicuri che la forma del diritto sia rimasta davvero quella della tradizione costituzionale moderna? Il ceto dei costituzionalisti e dei giuristi in generale, in grandissima parte di cultura progressista, ha in realtà talora ben assecondato – senza generalizzare e riconoscendo le differenti sensibilità! – l’instaurazione della forma di Stato neoliberale. La forma del diritto del costituzionalismo novecentesco è stata svuotata anche dall’interno. Gli appelli a un ritorno all’ordine delle cose, pur autorevoli e motivati, sembrano ormai tardivi[xviii].
Integrazione europea, austerità di bilancio, primato diritto europeo, costituzionalismo multilivello, proliferazione di authorities, supremazia della giurisdizione costituzionale, dialogo tra le corti interne e sovra-nazionali e preminenza del relativo diritto giurisprudenziale, creazione di nuovi diritti, dogmatica degli astratti diritti dell’uomo, sono solo alcune voci che segnano il profilo odierno della forma del diritto. Il Giuridico, cioè la forma, che si è venuta così strutturando ha dato l’impressione di accompagnare la forma di Stato neoliberale più che di esperire con essa una contraddizione insanabile. Lo vediamo anche col cosiddetto costituzionalismo digitale: tanto allarme per il potere dei Giganti del web, per poi risolversi, come fa il diritto europeo a scavalco delle costituzioni nazionali, a dare loro il potere di censura sui cittadini.
Iannello ha perfettamente ragione quando conclude che sembra essere una mutazione genetica della intera tradizione del costituzionalismo moderno, quella iniziata con Hobbes e giunta sino a noi. Siamo in un passaggio d’epoca, in cui stanno mutando le coordinate non solo giuridiche ma anche quelle antropologiche. Il testo reca traccia di questa consapevolezza quando nel capitolo conclusivo, si interroga proprio sulla «difesa dell’umano» contro le derive transumaniste e totalitarie. Una suggestione conclusiva. Nel 1968, in una conferenza sulla morale, Augusto Del Noce temeva che, nella società del benessere e del nuovo positivismo, «il regime che si imporrà sarà necessariamente oppressivo, anche se dichiarerà la più ampia tolleranza, nei limiti, si intende, in cui questa tolleranza non rappresenta nessun pericolo»[xix].
Di Carlo Magnani[i] C. Iannello, L’interpretatio abrogans dell’art. 32 della Costituzione. L’obbligo vaccinale per il Sars-Cov-2 e le ordinanze di rinvio alla Consulta, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022.
[ii] Aa.Vv., Lo Stato incostituzionale. Il Paese tradito, LaFionda rivista, 2, 2024.
[iii] C. Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà, Meltemi, Milano, 2025, p. 18.
[iv] M. Luciani, L’antisosvrano e la crisi delle costituzioni, in Rivista di diritto costituzionale, 1, 1996.
[v] Si cita solo, da ultimo, G. Azzariti, Diritto o barbarie: il costituzionalismo moderno a un bivio, Laterza, Roma-Bari, 2021; si veda anche, G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari, 2013.
[vi] C. Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà, cit., p. 45.
[vii] Ivi, p. 57.
[viii] N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari, 2001.
[ix] C. Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà, cit., p. 63.
[x] Ivi, p. 128.
[xi] L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011.
[xii] C. Iannello, Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà, cit., p. 154.
[xiii] Ivi, p. 165.
[xiv] E. Brancaccio, Democrazia sotto assedio, Piemme, Milano, 2022.
[xv] Ivi, p. 195.
[xvi] Ivi, pp. 207-8.
[xvii] Si veda, tra le varie opere, N. Irti, Diritto senza verità, Laterza, Roma-Bari, 2011.
[xviii] M. Luciani, Ogni cosa a suo posto, Giuffrè, Milano, 2023.
[xix] A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano, 1970, p. 198.