Cuba, addio al comandante Manuel Nuoriega

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Cuba, addio al comandante Manuel Nuoriega

Faro di Roma

“Mio padre era di colore. Prima della rivoluzione, qui la sua vita non valeva un cent. La sua e quella dei neri come lui”, raccontava l’anziano comandante. Novantatre anni, inchiodato dal 1957 su una sedia a rotelle a causa di una fucilata dei soldati dell’esercito di Batista che lo colpì nella schiena senza però piegarne l’animo rivoluzionario, tanto che da invalido riprese poi il comando. E’ deceduto nei giorni scorsi all’Avana Manuel Nuoriega, uno dei compagni di Fidel Castro e Che Guevara. Viveva in un piccolo edificio alla periferia dell’Avana, una casa di campagna molto semplice e accogliente, non certo però la residenza lussuosa che in qualunque altro paese del mondo toccherebbe a uno dei padri della patria. Qui eravamo andati a trovarlo con il presidente dell’Anec de L’Habana, Nicolás Valladares, e la delegazione guidata da Rita Martufi, del CESTES e dal professor Luciano Vasapollo, che oggi ricorda quell’incontro e i molti altri avuti negli anni con il comandante Nuoriega: “raccontava con semplicità e senza mai vantarsi le vicende di cui era stato protagonista accanto a Fidel Castro, era un grande uomo che ha fatto la scelta di campo di stare sempre dalla parte dei più umili”.

 

Di carnagione chiara e studente modello, Manuel avrebbe potuto mettersi in salvo dissimulando le sue origini afro, ma già dagli anni ’40 aveva deciso da che parte stare: Cuba, spiegava “è un’isola che ha una forte componente nera nella popolazione, io mi sono sentito da sempre uno di loro, anche se la mia pelle è bianca”.

Una vicenda quella del comandante Manuel che scorre parallela a quella di Fidel Castro, come il lider maximo, infatti, fin da adolescente Nuoriega assistette alle violenze inflitte in particolare alla comunità nera da un regime fondato sulla forza, sul sopruso.

“Vedevo – ha scritto Fidel sul suo diario – l’atteggiamento prepotente, maschilista dei militari, dei soldati dell’esercito di Batista. Furono elementi che mi formarono e che suscitarono in me repulsione: notai l’arroganza, la prepotenza, il maschilismo, l’abuso di autorità, le minacce, l’utilizzo della paura, del terrore sulla gente. Ricevetti una serie d’impressioni che mi fecero provare repulsione per quella forma di potere, perché lo stavo vivendo, lo vedevo tutti i giorni. Direi che fin da bambino iniziai a provare una certa repulsione verso questa forma di autorità armata, in virtù della quale chi aveva le armi aveva anche il potere e lo esercitava: i soldati picchiavano la gente, la maltrattavano, e davano l’impressione di poter ammazzare chiunque senza che accadesse nulla”. A Cuba nella prima metà del secolo scorso, ancora, gli schiavisti importavano manodopera per le piantagioni di zucchero e i neri arrivavano in catene dall’isola di Goreè in Senegal, il luogo da dove San Giovanni Paolo II chiese perdono alle vittime della schiavitù paragonando la loro tragedia al genocidio nazista: milioni morirono infatti nei viaggi che affrontavano stipati sulle navi come gli ebrei sui treni che andavano ad Auschwitz.

Manuel Nuoriega raccontava la stessa vicenda con altre parole: “a Cuba – ci disse nell’intervista rilasciata a FarodiRoma nel maggio 2019 – non c’era la segregazione razziale sul genere del Sudafrica, ma c’era una fortissima discriminazione e ripetuti e continui atti di violenza ai danni dei neri da parte dei possidenti locali e degli yankee che vi si erano stabiliti o venivano in vacanza, regalando ai primi una certa agiatezza perché già 70 anni fa il turismo era la principale fonte di guadagni in cambio dei quali gli Stati Uniti avevano un diritto d’ingerirsi negli affari interni cubani costituzionalmente garantito. Una situazione intollerabile per un patriota, alla quale si sommava la sofferenza di vedere mio padre e i neri come lui trattati come se fossero cose o animali”.

Quest’uomo mite e dolcissimo, ricordava commosso il “dottor Guevara”, arruolatosi come medico nelle file dei rivoluzionari, e il programma politico noto come “The History Will Absolve Me”, sintetizzato nella difesa di Fidel quando, giudicato per gli assalti alla caserma Moncada e Carlos Manuel de Céspedes, descrisse per la prima volta quel che Cuba sarebbe poi diventata: il paese dove tutti hanno gli stessi diritti e possibiltà, dove il poco o molto che c’è si suddivide in parti uguali per tutti.

Il dato certo è che la Cuba pre-castrista era razzista. E in realtà, la questione dell’identità nazionale cubana si gioca proprio intorno al superamento del razzismo e certo la discriminazione contro neri e meticci è stata difficile da lasciare alle spalle in questi 6 decenni. Nei momenti critici, come il cosiddetto periodo speciale, in certi casi è riemersa. Ma nonostante tutto, cioè malgrado la distanza che c’è sempre e comunque tra la realtà e gli ideali, la tendenza a liberarsi di questi atavici pregiudizi e delle conseguenti (criminali) ingiustizie, è stata sempre prevalente. Lo testimonia in modo chiaro il discorso tenuto da Fidel Castro a Durban, in Sudafrica, alla Conferenza Mondiale contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia e le relative forme di Intolleranza il 1 settembre 2001, il leader rivoluzionario cubano Fidel Castro denunciò il razzismo e il ruolo dell’imperialismo nordamericano e come questo non abbia mai sradicato il razzismo dal proprio suolo.

“Il razzismo, la discriminazione razziale e la xenofobia costituiscono un fenomeno sociale, culturale e politico, non un istinto naturale degli esseri umani; sono figli diretti delle guerre, delle conquiste militari, della schiavitù e dello sfruttamento individuale o collettivo dei più deboli realizzato dai più forti durante il corso della storia delle società umane”, spiegò il lider maximo ricordando che “i vecchi coloni bianchi d’origine europea, nella loro avanzata verso l’ovest, strapparono agli abitanti indiani, che ne erano i legittimi proprietari, quelle terre che occupavano da migliaia di anni, e sterminarono e milioni di essi. Non si fermarono nelle frontiere di quelli che erano stati possedimenti spagnoli, e il Messico, paese latinoamericano che raggiunse la sua indipendenza nel 1821, venne ugualmente spogliato di milioni di chilometri quadri e d’incalcolabili risorse naturali. Nella nazione sorta nel Nordamerica, che stava crescendo sempre più potente e più espansiva, l’odioso ed inumano sistema schiavista fu mantenuto fin quasi un secolo dopo la famosa Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, in cui si aveva proclamato che tutti gli uomini nascono liberi ed uguali”.

“Dopo l’abolizione meramente formale della schiavitù – ha ricordato Fidel in quello storico e attualissimo discorso – gli afronordamericani furono sottoposti, per altri cent’anni, alla più crudele discriminazione razziale; molte delle sue caratteristiche e conseguenze sono rimaste fino ad oggi, per quasi quattro decenni in più, dopo le eroiche lotte e i successi raggiunti negli anni ‘60, che costarono la vita a Martin Luther King, Malcom X ed ad altri grandi uomini che lottarono per queste idee. Per ragioni puramente razziste, le peggiori e più prolungate condanne penali ricadono sugli afronordamericani, dentro la ricca società nordamericana gli spettano la maggior povertà e le più miserabili condizioni di vita. Ugualmente terribili, ed anche peggiori, sono il disprezzo e la discriminazione nei confronti di ciò che resta delle popolazioni aborigeni che occupavano gran parte del territorio attuale degli Stati Uniti”.

Il rapporto con la popolazione di colore, in effetti, è stato uno degli aspetti più complessi del regime castrista. Figlio di un latifondista di origine spagnola, Fidel Castro si ribellò infatti contro l’ex-sergente Fulgencio Batista, che è stato l’unico capo di Stato della storia cubana ad avere sangue africano, oltre che cinese e indio. Assieme alla protesta contro la corruzione, alle diseguaglianze sociali e all’illegalitàa del regime, non c’è dubbio che nel movimento anti-batistiano ci fosse anche una componente di disprezzo razziale per il “negro” al potere. E per analoghi motivi Batista era ambiguamente appoggiato da una parte importante della popolazione di colore. Proprio per questo i negri E i partecipanti all’assalto Moncada una volta catturati furono spesso rimproverati e puniti dai soldati della loro stessa razza, come “traditori”. Una volta arrivato al potere però Fidel Castro si proclamò alfiere della popolazione nera, utilizzando spesso in modo subliminale e anche esplicito i simboli del culto sincretico afro-cubano della Santeria. E da allora l’ideologia africanista sarà un retroterra importante nelle “missioni internazionaliste” in Africa: Che Guevara andrà a combattere in Congo; l’”Operazione Carlota” in Angola, narrata da Gabriel García Márquez, sarà battezzata dal nome dell’eroina di una rivolta di schiavi.

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