Dai parapendii a Greta Thunberg
di Pasquale Liguori
C’è stato un tempo in cui i parapendii fecero tremare l’ordine del mondo. Era il 7 ottobre, e da quel cielo bucato dai corpi di gruppi di combattenti palestinesi precipitava la verità che nessuno in Occidente voleva vedere: un popolo che resiste. Un popolo che - dopo decenni interminabili di massacri, assedi, furti, devastazioni e umiliazioni - decide di infrangere il recinto dell’inerzia, anche a costo del sangue. Fu un gesto tragico, ma storico: un atto di rottura, di insubordinazione radicale contro l’ordine coloniale più impunito del pianeta.
E oggi? Due anni dopo, quel cielo sembra essere diventato un palcoscenico da talk show. Siamo passati dal parapendio dei miliziani alle tournée, da un gesto di liberazione alla passerella di Greta Thunberg con la kefiah: si potrebbe dire la metamorfosi di una tragedia in performance. L’eroismo della resistenza sostituito dalla posa di un’icona mediatica che raccoglie applausi, microfoni e titoli di giornale. Gaza, ancora una volta decontestualizzata, bonificata e restituita al parametro rassicurante della coscienza occidentale: compassionevole, ipocrita, innocente.
Tantissimi che hanno lasciato scorrere il genocidio come un notiziario di routine, sventolano adesso bandiere, espongono striscioni, si agitano pontificando sui social. Non rischiano nulla. Perlopiù restano in attesa - passiva, se non addirittura fiduciosa - dell’esito dei mirabili piani di pax imperial-trumpiana. Il disimpegno è l’emozione a tempo determinato, la terapia di gruppo per anime liberal che vogliono sentirsi dalla parte giusta.
Il problema non è Greta Thunberg in sé - nemmeno è il caso di confrontarsi con le volgarità che si leggono sulla sua condizione fisica - ma ciò che rappresenta: l’appropriazione occidentale della tragedia altrui, la riduzione della resistenza a linguaggio emotivo e compatibile con l’audience. La trasformazione della lotta di un popolo colonizzato in prodotto comunicativo globale, gestito da influencer, esperti e opinionisti autoproclamati che fluttuano nel vuoto politico della loro stessa notorietà e dell’isteria che essa genera. La Palestina, così, torna a essere ciò che l’Occidente ama di più: un’icona di cui parlare, non un popolo da sostenere nella sua lotta per l’autodeterminazione.
Siamo di fronte a una regressione profonda: la resistenza che viene rimpiazzata dal racconto della resistenza; il coraggio, dal consenso; la lotta, dai follower.
Il parapendio dei miliziani fu una ferita nel cielo della complicità globale. Greta Thunberg, oggi, è il cerotto ecologico che la ricopre. La Palestina può ritornare così nel ruolo da sempre assegnatole: vittima eterna, mai soggetto politico.