Fenomenologia del turismo genocidiario
Turismo di guerra: quando le bombe su Gaza diventano uno spettacolo da osservare con il binocolo
di Alex Marsaglia
Tanti osservatori e commentatori hanno fatto notare che di fronte a quanto avviene a Gaza ci troviamo davanti al primo genocidio in diretta, con i pro e i contro poiché i nuovi media e l’interconnessione globale dovuta ai mezzi di comunicazione hanno permesso anche l’innescarsi di una maggiore solidarietà globale. Sarebbe certamente stata impensabile una Global Sumud Flottilla senza questa iper-esposizione mediatica. Non dobbiamo però dimenticare che la tecnica agisce e retroagisce sull’uomo, per cui il capitalismo che la produce cambia antropologicamente l’uomo stesso. E tra i tanti fenomeni nuovi a cui abbiamo dovuto assistere in questa tragedia c’è il turismo genocidiario, cioè la vendita da parte dei tour operators israeliani di pacchetti giornalieri da 800 euro per effettuare visite guidate al teatro dello sterminio (vedi https://www.cuatro.com/noticias/internacional/20250105/turismo-gaza-bombas-convierten-espectaculo-prismatico_18_014421782.html).
Come mai nel XIX secolo non vi siano stati coloni europei disposti a pagare per vedere l’olocausto dei nativi americani, come se si trattasse di uno spettacolo teatrale, mentre oggi assistiamo a questi fenomeni verso i palestinesi? Siamo davanti a un cambio antropologico dell’Essere umano, che si è assuefatto al dolore a tal punto da svilupparne un elemento patologico, arrivando a provarne piacere?
Di sicuro siamo ben oltre la pornografia del dolore che può esserci tramite il sensazionalismo spinto dai social network. Se come diceva G. Anders «il divertimento è l’arte di tendenza del potere»[1], allora come si è arrivati a divertirsi guardando un genocidio? Val la pena di attraversare assieme questo inferno per tratteggiarne alcuni elementi da lasciare a futura memoria, per certificare in qualche modo il livello dell’Essere umano raggiunto agli inizi del XXI secolo. Ciò che diceva Anders è che «fra le potenze che oggi ci formano e deformano non ce n’è neanche una la cui forza di formazione possa gareggiare con quella del divertimento»[2]. Questa potenza viene plasmata dall’apparato e ricacciata nel mondo, riducendo l’Essere umano a cosa, cioè la cosiddetta reificazione dell’uomo nella sua dimensione di consumatore, che si manifesta nel mercato del divertimento quando «consuma essendo privo di libertà e quindi consuma illibertà»[3].
Siamo quindi riusciti a smascherare lo stimolo motivazionale che può spingere un Essere umano (se così possiamo ancora chiamarlo) ad effettuare una transizione monetaria per appagare il proprio bisogno (patologico o meno, sospendiamo il giudizio). L’induzione di tale bisogno di divertimento, tratto dal godimento di uno spettacolo irripetibile nella Storia è chiaramente indotto dal potere israeliano che riduce lo spettacolo ad un unicum: la “soluzione finale” per Gaza prevede che a breve non ci saranno più altri palestinesi, e forse nemmeno una Palestina che verrà probabilmente trasfigurata dal nuovo piano immobiliare della Striscia di Gaza. Ma per quale motivo un israeliano, un Essere umano, debba trarre piacere da un simile spettacolo disumanizzante ancora non è chiaro fino in fondo. Ebbene, sempre Anders forniva un’accurata descrizione del processo di ritraduzione che si attivava nell’Essere e nella coscienza dei soldati americani in Vietnam durante il massacro di My Lai in cui assistevano alla superiorità schiacciante dell’apparato di annientamento di cui facevano parte. I soldati, in quanto uomini, vivevano il dislivello tra la morale che risale al passato e appartiene all’Essere umano e l’apparato che è invece del presente e pervaso dalla tecnica fredda e distaccata. I vertici militari si attendevano che i soldati «restassero ancora in qualche modo fedeli a precedenti postulati di comportamento “pretecnici”; che dunque si comportassero nel loro agire diretto diversamente dagli apparati; altrimenti cioè da come avrebbero potuto, anzi dovuto comportarsi indirettamente in quanto squadre di servizio degli apparati in azione», ma «nessuno è in grado di sostenere alla lunga una tale dissociazione, un simile dislivello tra la morale umana e quella dell’apparato». Così i soldati americani in Vietnam si lasciarono andare al più orrendo massacro di civili nella storia delle guerre neocoloniali sull’onda del neo-imperativo categorico assoluto: «compi tranquillamente tutto ciò che non contraddice alle massime dell’apparato in cui sei inserito; e pretendi di poter agire così»[4]. Nel 1968 il rapporto uomo-macchina raggiungeva così un nuovo stadio qualitativo definito da Anders come ritraduzione, in cui «l’azione indiretta viene ritradotta di nuovo in “terms of direct action”»[5]. In queste poche righe il filosofo allievo di Heidegger e Husserl trasponeva tutta la distanza abissale che si era frapposta, con la pervasività della tecnica, tra l’uomo e il suo Essere umano. Un distacco che ritroviamo oggi amplificato nell’apparato coloniale sionista, poiché i coloni che comprano dalle agenzie turistiche pacchetti vacanza per sedersi comodamente sulle alture di Sderot a gustarsi il maciullamento di un popolo condotto da loro stessi alla fine della Storia rientrano a pieno nel meccanismo di ritraduzione sopra descritto. Poco importa non siano loro direttamente a maciullare quei corpi, come hanno fatto i militari americani nel massacro di My Lai, rientrano comunque nell’apparato e nell’azione indiretta. Saranno poi comunque loro ad occupare quelle terre, le poche case rimaste e se necessario a cacciare coi bastoni gli ultimi gazawi rimasti, come avviene in Cisgiordania. I coloni sionisti, come i soldati americani nel ‘68, recriminano il fatto che agli umani venisse permesso meno che agli apparati e si identificano a tal punto in tali potenzialità tecniche da godere dello spettacolo, dietro pagamento del prezzo del biglietto. Come se fossero ad un concerto, ma siamo di fronte alla vendita di quanto rimaneva dell’Essere umano, cioè della morale che rappresenta il gradino più basso del dislivello; e lo fanno al fine di raggiungere l’apparato e godere delle magnifiche sorti progressive di cui si fa portatore. Come ha detto il Ministro Smotrich in riferimento al piano americano di Trump su Gaza: «è una miniera d’oro immobiliare», occorre quindi mettere in atto la cara vecchia “accumulazione originaria per espropriazione” teorizzata da Marx. Una volta tolti di mezzo i gazawi con le più moderne tecniche di guerra, si procederà come da pianificazione immobiliare alle iniezioni di capitale dovute a rimettere la Striscia di Gaza in cammino verso il progresso. I palazzoni in cui si rifugiavano a migliaia i gazawi verranno sostituiti da resort luccicanti, mettendo a profitto la riviera. Uno spettacolo di tecnica della guerra unita all’ingegneria civile al servizio del capitale che i coloni israeliani non intendono perdersi per niente al mondo e per cui, anzi, sono disposti a pagare, vivendo a pieno il «tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio (…) in cui ogni realtà morale e fisica viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore»[6]. E sappiamo che i coloni israeliani sapranno attribuire il miglior valore di mercato possibile alla “soluzione finale”, dopotutto come ha detto Smotrich sono già in trattativa con Trump che di palazzine e resort se ne intende. E così dopo aver venduto lo spettacolo della distruzione, con l’innovazione tipica dell’imprenditore shumpeteriano, si accingeranno a mercificare anche la creazione di una nuova Gaza israeliana, sul sangue e la diaspora dei palestinesi.
[1] G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale Vol. II, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 123
[2] Ivi, p. 124
[3] Ivi, p.125
[4] Ivi, p. 169 (corsivi nell’originale)
[5] Ivi, p. 170
[6] K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla filosofia della miseria di Proudhon, Editori Riuniti, Roma, 2019