Gaza e l’industria israeliana della violenza

Gaza e l’industria israeliana della violenza

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Gaza e l’industria israeliana della violenza di Bartolomei E., Carminati D., Tradardi A., DeriveApprodi, Roma, 2015, pp. 332.



 
La Striscia di Gaza, e la Palestina tutta, come luogo di sofferenza e resistenza, da quasi un secolo, rappresentano un paradigma coloniale di insediamento e un modello concentrazionario con un ruolo determinate nell’industria militare israeliana.

Gli autori di questo interessantissimo libro ripercorrono la storiografia degli ultimi vent’anni con gli eventi fondamentali, dagli Accordi di Oslo in poi, che hanno trasformato Gaza in un campo di concentramento a cielo aperto, decostruendo il doppio linguaggio sionista di Israele dove supremazia razziale diviene democrazia, resistenza uguale terrorismo, pulizia etnica si trasforma in conflitto israelo-palestinese e la colonizzazione in processo di pace.
Non basta parlare di occupazione coloniale, c’è bisogno di un cambiamento lessicale non solo per rendere giustizia a ciò che succede a Gaza, Cisgiordania, ai Palestinesi residenti in Israele, ma anche per evitare un linguaggio teso a incarcerare le menti e i cuori all’interno dei confini concettuali e interpretativi di una propaganda egemone. Ecco perché gli autori parlano di colonialismo di insediamento come paradigma interpretativo, in cui «una comunità di interessi costruisce un progetto di occupazione di un territorio, vi si stabilisce e ha come obiettivo finale espellere i nativi e sostituirli con la propria popolazione, confinandoli in riserve o eliminandoli progressivamente»[1].

Un progetto politico, quello sionista, finalizzato a impossessarsi nel tempo di terre e risorse senza dover necessariamente incorporare o gestire la popolazione che vi abita. Un progetto e una politica che, come sottolineano gli autori, ha assunto forme di apartheid cioè della completa separazione del gruppo dominante dal gruppo assoggettato, della segregazione degli indigeni in aree circoscritte e rigidamente controllate, dell’eliminazione fi sica dei Palestinesi attraverso la spoliazione e l’espulsione e infine del memoricidio, distruggendo il patrimonio culturale al fine di cancellare ogni presenza e traccia dal territorio.

Il racconto delle nove operazioni militari israeliane dal 2004 al 2014 restituisce al lettore quel rumore della violenza, della volontà genocida, di case distrutte, spari, uccisioni, cingoli di carri armati, grida dei feriti, che viene posto sotto silenzio dalla stampa internazionale o raccontato impropriamente  come una guerra alla pari, come se fossero tutti sordi ad una richiesta legittima per “Restare umani”[2].

Gli autori disvelano una campagna di rebranding dell’immagine di un paese che vuole apparire moderno, democratico e liberale, ma che tolto il velo di propaganda si mostra come etnocratico[3], teocratico e militaristico. Vi si presenta agli occhi della comunità internazionale una vera “violenza della menzogna” così come titola un capitolo del libro, spunto di discussione per una conferenza presso l’Università Suor Orsola Benincasa nell’ottobre 2015[4], da cui è emerso che neanche più la parola “coloni” fa rabbrividire la pelle. La comunità scientifica, formata da studenti, ricercatori e docenti, ha l’obbligo di interrogarsi su cosa sia oggi il colonialismo,fare i conti con esso, con le sue pratiche di militarizzazione della cultura, dei saperi prodotti e le modalità con cui vengono trasmessi, attraverso «una rilettura radicale dei nostri archivi culturali» (Oboe 2014, p. 139).

Una prospettiva metodologica e di ricerca che rimetta in discussione i confi ni della modernità, non solo fisici[5] (dello stato-nazione) ma anche epistemologici[6] (eurocentrici e colonialisti). È proprio la questione palestinese insieme al caos geopolitico dell’intero Medio Oriente che potrebbe portarci a considerare «la nuova centralità politica e critica del Mediterraneo» (Chambers 2014, p. 148), dove i corpi dei Palestinesi divengono cavie per la vetrina internazionale dell’industria bellica israeliana insieme alla fi gura del migrante su cui è «inscritto un passato coloniale rimosso che viene ogni giorno distillato nel mix metropolitano della moderna città europea» (Ibidem).

Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, e ancor prima quelli alla redazione di Charlie Hebdo, il libro di Bartolomei, Carminati e Tradardi ci mostra l’attualità del modello concentrazionario di Gaza esportato nel cuore dell’Europa continentale. Le immagini di Parigi e, poi, Bruxelles militarizzate alla ricerca dei terroristi ci riportano alla guerra urbana asimmetrica contro attori non statali su cui si basano le dottrine e le tecnologie sviluppate dalle forze militari e di polizia israeliana.

La chiusura delle città palestinesi, la pervasiva sorveglianza della popolazione attraverso droni, satelliti, l’utilizzo di carte di identità biometriche, scansioni dell’iride, posti di blocco attraverso la costruzione di muri, zone di sicurezza o aree cuscinetto rappresentano quelle pratiche che gli strateghi militari israeliani chiamano Urban Area Domination. Pratiche non solo applicate alle zone di guerra ma anche a contesti urbani civili, come nel caso dei mega-eventi (Expo di Milano, Mondiali di Calcio, Olimpiadi, Summit internazionali) o delle semplici partite di calcio, delineando così una nuova urbanistica militare dei contesi urbani delle città. Un’urbanistica militare capace di intervenire in caso di rivolte sociali potenzialmente più frequenti, dettate dalle politiche neoliberiste e austeritarie che producono disuguaglianze territoriali. Pratiche applicate al settore della “sicurezza di confine” sempre più militarizzato, dove le industrie israeliane risultano essere il capofila nell’esportazione di tecnologie e consulenze in alcuni Paesi come il Brasile, India, Stati Uniti che hanno bisogno di recintarsi contro le spinte migratorie globali.

La ricerca attraverso i dati e le testimonianze che gli autori riportano in questo interessante libro dimostra l’attività profittevole dell’industria israeliana della violenza che si avvale del marchio “made in combattimento”, di armamenti e tecnologie testate in corpore vili, attraverso la vetrina a cielo aperto che rappresenta il territorio palestinese e la sua popolazione.

L’esportazione del modello fortezza-Israele attraverso la sua industria e i suoi saperi di guerra delineano le politiche globali della sicurezza, così come la lettera di Oriana Fallaci[7] o il libro di Huntington[8], che, lungi dall’essere testi profetici, risultano essere dei veri e propri manifesti destinati all’applicazione delle politiche pubbliche securitarie dei governi deipaesi occidentali.

Come ricorda Anna d’Arcostanzo nella postfazione al libro, il topos del pericolo e della sicurezza, dall’11 settembre 2001 in poi, riporta una sistematica operazione di demonizzazione dell’alterità che già in passato è servita per imponenti imprese coloniali e imperialiste. L’immagine del corteo presidenziale svoltosi a Parigi l’indomani dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo è un’ultima, forte ed imponente immagine “plastica” della storia stereotipata dell’occidente (così come le bandierine statunitensi sventolate a Roma dopo l’attentato alle Torri gemelle) che riproduce solo la speculare narrazione di un “Noi” e di ciò che riteniamo sia “l’Altro”. Una categoria interpretativa che ci sta facendo pagare un prezzo troppo alto: la libertà individuale e collettiva. «Nello Stato di sicurezza», per usare le parole di Agamben, «il patto sociale cambia di natura e degli uomini che vengono mantenuti sotto la pressione della paura sono pronti ad accettare qualunque limitazione delle libertà»[9].

Gli autori di Gaza e l’industria israeliana della violenza hanno il merito di condurci alle ultime pagine di altro grande testo di Franz Fanon che conclude così: È attraverso uno sforzo di ripresa su se stessi e di privazione, attraverso una tensione permanente della loro libertà che gli uomini possono creare le condizioni d’esistenza ideali d’un mondo umano. Superiorità? Inferiorità? Perché non cercare semplicemente di toccare l’Altro, di sentire l’Altro, di rilevare l’Altro? La mia libertà non mi è dunque data per edifi care il mondo del Tu? Alla fi ne di quest’opera ci piacerebbe che si sentisse come noi l’aperta dimensione di ogni coscienza. La mia ultima preghiera: O mio corpo fai sempre di me un uomo che interroga! (Fanon 1996, p. 123).

Fabrizio Greco
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli
(grecofabrizio@hotmail.it)
(CARTOGRAFIE SOCIALI Rivista di sociologia e scienze umane
ANNO I, N. 2, NOVEMBRE 2016)

 
Riferimenti bibliografici
Arrigoni V., 2009, Gaza. Restiamo umani dicembre 2008 - gennaio 2009, Roma,
Manifestolibri.
 
Chambers I., 2014, La sfida postcoloniale, l’Italia e il Mediterraneo, in «Aut-Aut»,
n. 364, pp. 147-152.
 
Fanon F., 1996, Pelle nera, maschere bianche: il nero e l’altro, Milano, Marco
Tropea Editore (ed. or. 1952).
 
Huntington S., 1996, Clash of civilizations and the Remaking of World Order, New
York, Simon & Schuster.
 
Mezzadra S., Neilson B., 2013, Border as method, or, the Multiplication of Labor,
Durham, Duke University Press.
 
Oboe A., 2014, Postcoloniale e revisione dei saperi, in «Aut-Aut», n. 364, pp.
137-147.
 
Said E., 1983, The World, the Text and the Critic, Harvard, Harvard University
Press.
 
Yacobi H., 2011, Migrazione di lavoro e produzione dello spazio urbano in Israele,
in Palidda S. (a cura di), Città mediterranee e deriva liberista, Messina, Mesogea.

 
[1] D. Carminati, Un nuovo lessico per il nostro Che fare? Sulla questione israelo- palestinese, volantino Ism-Italia, 2015.
[2] Restiamo umani era l’appello con cui Vittorio Arrigoni terminava ogni suo articolo.
[3] A tal proposito interessante spunto di rifl essione sul concetto di “etnoclasse” nel saggio di Yacobi (2011).
[4] La violenza della menzogna – Un paradigma coloniale di insediamento in Cisgiordania e Striscia di Gaza, conferenza organizzata da Urit giovedì 29 ottobre 2015 ha visto la presenza di Alfredo Tradardi autore del libro in oggetto. Sono intervenuti Antonello Petrillo (Unisob), Fabrizio Greco (Unisob), Flavia Lepre (Comitato BDS Campania).
[5] Si rinvia a Mezzadra, Neilson 2013.
[6] Si rinvia a Said 1983.
[7] O. Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Corriere della Sera, 29-11-2001.
[8] Il libro è del 1996.
[9] G. Agamben, Perché lo stato di emergenza non può essere permanente, in «www.repubblica.it», 24-11-2015.

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