I giornali e i "cookies": qualcosa non torna

I giornali e i "cookies": qualcosa non torna

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Sempre più giornali e siti consentono l’accesso gratuito solo in cambio dell’accettazione dei «cookies», ossia previa la volontaria rinuncia al tanto sbandierato diritto alla «privacy», che così si conferma una cazzata (come quasi tutti gli anglicismi che non hanno un equivalente in italiano) inventata dal liberismo per diffondere individualismo e poi ricattare con facilità i singoli ormai disorganizzati.

Copio l’avviso che compare sul sito del «Corriere della Sera» quando si voglia accedere a un articolo: «Il Corriere della Sera si impegna quotidianamente a fornirti informazione di qualità attraverso il lavoro di centinaia di giornalisti, grafici e tecnici. Per garantire un'informazione libera e accessibile facciamo ricorso a pubblicità profilata che copre i costi della navigazione così da permetterti di usufruire di una parte dei contenuti gratuitamente. Senza la pubblicità l'accesso ai nostri servizi avviene previo pagamento a pacchetti di abbonamento crescenti per contenuti e costo. Scegli se accedere al servizio di base permettendoci di erogare pubblicità personalizzata o aderendo a un piano di abbonamento equivalente».

A parte l’uso molto americano del «tu», va innanzi tutto notato che non viene impedito l’accesso al sito bensì agli articoli, quando dunque il lettore abbia già subìto la facile propaganda dei titoli (quasi sempre tendenziosi) e vorrebbe verificarli. A quel punto l’avviso lo informa che potrà andare avanti solo abbonandosi oppure accettando di diventare un «dato» da vendere alle multinazionali per consentire a esse di manipolarlo con «pubblicità mirata». I profitti sono necessari, ci viene spiegato, per mantenere «centinaia di giornalisti»; trascurando il dettaglio che il loro padrone non diventano però gli utenti o la collettività ma resta un privato qualsiasi purché miliardario.

Neppure viene garantito che l’informazione sarà obiettiva (forse perché richiederebbe la supervisione di un organo esterno, rigido, affidabile e istituzionale, lo Stato in particolare: ci mancherebbe! roba da comunisti!); si assicura invece che è «di qualità», qualunque cosa significhi, e ovviamente «libera» (da presunti condizionamenti pubblici, mica privati, infatti il «Corriere» è di proprietà del nababbo berlusconiano nonché pregiudicato Umberto Cairo).
Ci sono insomma tre livelli: primo livello ovviamente gratuito che sostanzialmente consiste nella propaganda dei titolisti; secondo livello "generosamente" gratuito a cui si accede accettando la pubblicità delle multinazionali; terzo livello a pagamento. In sostanza, all’informazione in quanto tale ha diritto solo chi può permettersela, gli altri hanno il diritto di farsi lavare il cervello.

Il punto è che l’informazione deve NON essere gratuita; niente che sia privato deve poter essere gratuito. Perché se è gratis o è un’esca o è propaganda.

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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