I referendum per cambiare la politica e combattere le disuguaglianze in Italia
di Michele Blanco
In Italia le persone indigenti sono 11 milioni e 92mila, qualcosa di impressionante, con il divario tra ricchi e poveri continua inesorabilmente ad aumentare. Il primo decile di reddito può contare su una quota del reddito nazionale equivalente del 2,5 per cento (in calo rispetto al 2,7 del 2023). In Germania la quota è del 3,4. Il decile più alto, quello più benestante, può invece contare su una quota del reddito nazionale equivalente del 24,8 per cento, in aumento dal 24,1 del 2023 (in Germania è al 23,7 per cento). In parole semplici ma mai cosi vere i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.
Questi sono i dati Eurostat sui redditi e le condizioni di vita delle famiglie riferiti al 2024 che sono stati pubblicati da pochi giorni. Il quadro è assolutamente drammatico, ma nei mass media, giornali e telegiornali, ma anche nei discorsi politici la precaria condizione del paese, di milioni di persone, non sembra meritare attenzione. Sappiamo che non si tratta di una novità, visto che il lavoro precario e povero, morti sul lavoro, salari troppo bassi, sono ormai la dura realtà sociale del nostro Paese.
Nella società italiana quasi un quarto degli italiani (il 23,1 per cento) si trova «a rischio di povertà o esclusione sociale», secondo la definizione statistica, in aumento rispetto all’anno prima. In Italia cinque milioni di persone hanno difficoltà sulle spese minime (avere una casa riscaldata, far fronte a spese improvvise, avere almeno due paia di scarpe, una dieta adeguata), mentre sale il rischio di povertà tra i pensionati gli over 65 e tra, addirittura, le persone che lavorano duramente e impegnate a tempo pieno. Nel 2024, il rischio di povertà è salito al 18,9 per cento della popolazione (contro l’11,4 per cento in Germania e il 16 per cento in Spagna) e tra gli occupati a tempo pieno al 9 per cento (in aumento dall’8,7 per cento del 2023), una percentuale più che doppia di quella tedesca (3,7 per cento).
Il lavoro non basta più per avere una vita dignitosa. Se poi si considerano anche gli occupati part time, la percentuale sale al 10,2 per cento, uno dei dati peggiori tra tutti i paesi dell’Unione Europea. Avere un lavoro, purtroppo capita da tempo, non preclude a una possibile condizione di povertà. A guadagnare sempre meno sono soprattutto i giovani: è povero, visto i contratti precari a cui devono sottostare, l’11,8 per cento dei lavoratori tra i 16 e i 29 anni, mentre lo è il 9,3 per cento dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni. I più colpiti sono i lavoratori indipendenti e autonomi, tra cui i poveri sono il 17,2 per cento (erano il 15,8 per cento nel 2023); tra i lavoratori dipendenti la quota è all’8,4 per cento. Ovviamente, il livello di istruzione influisce sulla povertà lavorativa: è povero, infatti, il 18,2 per cento dei lavoratori che ha concluso la sola scuola dell’obbligo (era il 17,7 per cento nel 2023). Tra i diplomati, lo è il 9,2 per cento, mentre tra i laureati lo è il 4,5 per cento (dal 3,6 per cento del 2023).
Come sempre, poi, la povertà lavorativa è più diffusa nel Mezzogiorno, dove si avvicina al 20 per cento. Ovunque tale condizione è dovuta al basso reddito da lavoro. Del resto, salari bassi soprattutto per le posizioni lavorative meno qualificate e precarie sono una costante da anni del nostro paese. I lavori part-time o a chiamata, anche se “a tempo indeterminato”, sono ovviamente i più esposti. Secondo Istat, i lavoratori e le lavoratrici con un lavoro per il quale sono pagati un solo mese all’anno o meno sono il 21 per cento del totale (26,6 per cento per le donne, 16,8 per cento per gli uomini), una quota che è ben più alta di quella del 2007, quando era stata del 16,7 per cento.
Lavoro povero, indigenza, disuguaglianze: l’Italia continua inesorabilmente a scendere lungo la china, sembra sempre più incapace di risalire. Oltre venti anni di politiche neoliberiste l’hanno messa in ginocchio e non si vede all’orizzonte un cambiamento di tendenza. È un paese profondamente diviso, con una divisione che è di classe, territoriale, tra centri urbane e aree interne, in cui i ceti sociali meno abbienti soccombono, abbandonati a se stessi, senza più nessuna vera rappresentanza politica. I ceti medio-alti, urbani, protetti, cui si rivolge la maggior parte dei partiti politici, sono assolutamente i più difesi nei loro egoistici interessi, mentre gli altri restano fuori, schiacciati nella loro condizione, continuamente vessati dalla loro condizione di incertezza e insicurezza, spesso utilizzati per avere consensi con i richiami alla falsa sicurezza e al protezionismo.
In questo contesto sociale è necessario una svolta politica con serio programma di opposizione che, finalmente, rimettesse il lavoro al centro, come primi urgenti provvedimenti l’abolizione dei contratti differenziati tra lavoratori e il precariato in tutte le sue innumerevoli forme, i subappalti e il caporalato. Inoltre c’è estrema necessità di investimenti produttivi e ancor di più per istruzione, sanità garantita a tutti e servizi. Bisogna finirla con la spirale militarista e utilizzare i fondi necessari per combattere l’urgenza povertà.
L’occasione per far cambiare la situazione politica attuale è di fronte a noi: I referendum sul lavoro e l’articolo 18, ma andrebbe sfruttata. Per questo bisogna fare molto di più per portare tutti i cittadini italiani a votare l’8 e il 9 giugno.