I ritardi del capitalismo italiano

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I ritardi del capitalismo italiano

 

di Federico Giusti

Quanto maggiore è la qualificazione dei lavoratori e delle lavoratrici, quando aumentano gli investimenti in ricerca e sviluppo con ampio utilizzo di tecnologie avanzate, tanto più cresce la produttività.

Le fatidiche riforme di struttura, oggetto di ironia in tempi nei quali la programmazione è delegata interamente alla parte datoriale e ai settori dominanti del capitalismo, avrebbero permesso di individuare nei processi formativi e nella innovazione tecnologica i pilastri sui quali costruire il futuro del paese vincendo la illusione che solo abbassando il costo del lavoro, o con qualche agevolazione fiscale, l’economia possa tornare a crescere.

Esistono fior di pubblicazioni che spiegano come il capitale umano abbia un forte impatto nel decidere la sorte di una nazione, la perdita di produttività nei Paesi avanzati è legata alla crisi dei paesi occidentali, alle difficoltà di approvigionamento delle materie prime e dei metalli rari, alle carenze intrinseche al settore della logistica ma anche al fatto che, specie nella Ue, si sia speso meno del dovuto in ricerca e innovazione tecnologica rinunciando a una riqualificazione di massa della forza lavoro. Probabilmente stiamo pagando i risultati di quel dogma liberista che invocava più Mercato e meno Stato, i cambiamenti avvenuti sono stati rapidi e richiedono competenze che ampi settori della attuale forza lavoro ancora non possiede.

Una indagine PIAAC di un paio di anni or sono evidenziava crescenti disparità tra i vari paesi quanto alle competenze acquisite dalla forza lavoro o dalla popolazione in età produttiva, ad esempio i migliori risultati sono stati registrati in un paio di paesi dell’Asia e nel Nord Europa https://www.bollettinoadapt.it/competenze-e-produttivita-spunti-e-riflessioni-a-partire-dallindagine-piaac/

In Italia la formazione nel settore pubblico era a carico delle Province e il ridimensionamento delle stesse sotto il Governo Renzi ha senza dubbio indebolito i percorsi di riqualificazione della forza lavoro aumentando a dismisura i soggetti deputati ai percorsi formativi senza una struttura pubblica deputata al controllo, agli atti di indirizzo e alla puntuale verifica dei risultati ottenuti

 

Un ambito privilegiato per la formazione dovrebbero essere la scuola e l’università, la Pubblica amministrazione e i centri di studi legati strutture pubbliche, resta innegabile che la frammentazione di tanti percorsi non è stata di aiuto all’economia nazionale, lo smantellamento delle Province non ha aiutato i conti pubblici ma reso caotico e carente l’intervento in materia di formazione lavorativa o nella manutenzione di plessi scolastici e strade. E’ poi evidente che prima di occuparci di validare le competenze e di accreditare centri formativi (il business della formazione….) dovremmo capire quali siano i reali fabbisogni, i percorsi necessari, i tempi e le modalità con le quali muoverci.

Alcuni paesi hanno operato scelte importanti che hanno permesso di accrescere la produttività avendo investito risorse nei processi formativi per poi impiegare le competenze acquisite con una certa solerzia, altri invece hanno puntato tutto su sgravi fiscali, delocalizzazioni produttive e abbassamento del costo del lavoro con risultati decisamente inferiori a chi ha invece investito nella formazione del capitale umano

I ritardi dei sistemi scolastici sono palesi ma anche il tentativo di alcuni Governi di riformare solo parte del sistema educativo per ragioni di natura ideologica, elettorale o di mera propaganda o per piegare le scuole di ogni ordine e grado alle ragioni del Riarmo e della cultura militarista.

Alcune ricerche Ocse si sono portate avanti nelle analisi valutando risolutivo l’investimento nella educazione scolastica e nella formazione come prioritario per la crescita economica, esiste infatti una stretta correlazione tra i ritardi nei percorsi formativi, la diminuzione della spesa nella scuola e la bassa crescita del PIL.

Siamo consapevoli che tradotto in termini pragmatici oggi ci potremmo ritrovare in percorsi formativi finalizzati alla riqualificazione dei settori industriali arretrati in fabbriche di armi o aziende produttrici di tecnologie duali. Siamo convinti che tanta insistenza nei percorsi formativi possa tornare utile alle ragioni del Riarmo, all’economia di guerra, alla riconversione della manifattura arretrata in aziende legate alle nuove tecnologie. Un buon principio, come quello della formazione e dell’accrescimento delle competenze, si presterebbe utile ai piani di riarmo accompagnandolo con una opera di legittimazione ideologica della guerra sui banchi di scuola.

Resta tuttavia innegabile che per uscire dall’impasse in cui i paesi del vecchio continente si trovano da tempo (non tutti i paesi Ue) servono investimenti per la formazione continua degli adulti e qualche intervento in materia di welfare al fine di incentivare la presenza e la frequentazione di corsi di aggiornamento e di riqualificazione.  Anche in questo caso si corre il rischio di una parziale riscrittura del welfare favorendo, a discapito delle pensioni, dei bonus per la formazione, bonus rivolti magari a giovani e disoccupati, da utilizzare in qualche struttura privata e senza mai verificare, prima e dopo, la effettiva efficacia dei percorsi intrapresi, la loro spendibilità in ambito produttivo.

Restano poi le criticità del contesto italiano, la mancata crescita della produttività è anche causata dalla forte presenza di   piccole-medie imprese (PMI) che da anni puntano essenzialmente sulla riduzione del costo del lavoro e sugli aiuti fiscali. Poi ci sono le disparità territoriali, l’ascensore sociale fermo, i disinvestimenti nella scuola, i troppi abbandoni scolastici, i numeri chiusi negli atenei e le poche risorse a disposizione della ricerca pubblica. Abbiamo appena sintetizzato, in poche battute, le cause dei ritardi italici nello scenario capitalista dei nostri giorni

 

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