Il Diritto sena Natura: Crisi dell'ordine giuridico tra volontarismo e nominalismo

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Il Diritto sena Natura: Crisi dell'ordine giuridico tra volontarismo e nominalismo

 

di Daniele Trabucco*

Nel cuore della trasformazione postmoderna del diritto contemporaneo si cela una profonda frattura epistemologica: quella tra il diritto inteso come riconoscimento razionale (non razionalistico) di un ordine naturale oggettivo e il diritto concepito come espressione plastica della volontà soggettiva. Sempre più frequentemente, l’interpretazione giurisprudenziale, anche nelle sue massime sedi, si orienta secondo una logica nominalista, che assume la forma come costitutiva della sostanza e il significato come arbitraria proiezione del desiderio.

Questa deriva, apparentemente giustificata da esigenze di uguaglianza e autodeterminazione, rivela in realtà l’abbandono del principio di realtà e l’oblio del fondamento ontologico della norma giuridica.

Ora, il diritto, storicamente, si è costruito come arte del giusto («ars boni et aequi»), in grado di discernere, attraverso la ragione pratica, ciò che è conforme alla natura razionale e sociale dell’essere umano. Questa impostazione, propria della tradizione classico-cristiana e del giusnaturalismo tomista, presuppone l’esistenza di un ordine normativo insito nella realtà stessa, indipendente dalla volontà del legislatore o dal sentire mutevole dei popoli.

La legge positiva (Tommaso d’Aquino direbbe la «lex humana»), in tale prospettiva, ha valore in quanto partecipa e traduce nel concreto l’ordine del diritto naturale. Quando invece il diritto si emancipa da ogni fondamento ontologico, divenendo semplice funzione del desiderio individuale e dello spirito del tempo, esso smette di essere criterio di giustizia per trasformarsi in puro strumento di legittimazione del potere.

L’affermazione contemporanea di un diritto fondato sul desiderio soggettivo si manifesta emblematicamente nei settori cosiddetti «eticamente sensibili», ove la materia regolata riguarda direttamente la vita, la morte, la generazione, la filiazione, l’identità personale. In tali ambiti, la giurisprudenza tende progressivamente a sostituire categorie antropologiche fondate sulla natura, come la complementarità sessuale, la finalità procreativa dell’atto coniugale, la differenza padre-madre, con concetti flessibili e inclusivi, costruiti su base relazionale e intenzionale.

La genitorialità, ad esempio, viene sganciata dal dato biologico e riconosciuta come funzione volontaria (si veda, a titolo esemplificativo, la recentissima sentenza n. 68/2025 della Corte costituzionale); l’identità di genere viene autodichiarata indipendentemente dal corpo sessuato; la filiazione viene riformulata come diritto a essere genitore, e non più come dono inscritto nell’ordine della generazione naturale. Questo slittamento semantico e ontologico è il frutto di una visione nominalista del diritto: una concezione secondo cui i nomi (le categorie giuridiche) non corrispondono a nature reali, ma derivano da convenzioni linguistiche che rispecchiano rapporti di potere, costumi sociali o istanze individuali.

Il diritto, in tale schema, non ha più la funzione di scoprire e tutelare un bene oggettivo, ma di costruire realtà giuridiche artificiali capaci di rispecchiare e promuovere nuove sensibilità. È il passaggio dalla «lex naturalis» alla «lex voluntatis», dalla legge come criterio oggettivo della giustizia alla legge come strumento di riconoscimento identitario.

Le conseguenze di tale mutamento sono profonde. In primo luogo, si produce una dissoluzione del limite: se ogni configurazione soggettiva può divenire giuridicamente rilevante, viene meno la possibilità di distinguere tra ciò che è giusto in sé e ciò che è solo voluto. In secondo luogo, si determina un progressivo sgretolamento del principio di uguaglianza sostanziale, che presuppone la comparazione di situazioni analoghe: equiparare realtà radicalmente differenti in nome dell’inclusione produce in realtà nuove disuguaglianze, fondate sull’arbitrio dell’interpretazione che si fa enzima delle più svariate sensibilità sociali. Infine, si indebolisce il nesso tra diritto e verità, sostituito dal nesso tra diritto e consenso o diritto e percezione: ma un diritto senza verità è un diritto privo di giustizia.

In tale scenario, l’ermeneutica costituzionale, che dovrebbe essere vincolata al testo e alla «ratio legis», si trasforma in produzione normativa camuffata da interpretazione. Il giudice costituzionale, investito di una funzione di garanzia, assume progressivamente una funzione creatrice, ridisegnando i confini della famiglia, della persona, della maternità, della filiazione, sulla base di una concezione antropologica implicita ma mai dichiarata: quella del soggetto autodeterminato, sganciato da ogni relazione ontologica, creatore della propria identità e dei propri legami. Questa antropologia giuridica, pur promossa nel nome dei diritti fondamentali e favorita dall’anfibio principio personalistico di cui all’art. 2 della Costituzione vigente, rappresenta una frattura rispetto alla tradizione occidentale del diritto, che ha sempre riconosciuto nella natura dell’uomo e nelle sue finalità intrinseche il criterio normativo fondamentale.

Un’autentica riforma del diritto, capace di resistere alla dissoluzione nominalista, richiede il recupero di una prospettiva realistica e finalistica: un ritorno alla metafisica dell’essere come fondamento del diritto, alla legge naturale come misura razionale della legge positiva, alla verità della persona come limite e fondamento della libertà.

Solo un diritto radicato nel reale può garantire un ordine giusto, cioè ordinato alla realizzazione del bene umano integrale. In assenza di tale radicamento, il diritto non solo perde la propria legittimità razionale, ma diventa strumento fluido e mutevole di ingegneria sociale, privo di ogni garanzia autentica per la dignità dell’uomo. La crisi del diritto contemporaneo non è, in ultima analisi, una crisi tecnica o procedurale, bensì una crisi antropologica e metafisica. Finché il diritto sarà prigioniero del nominalismo e del volontarismo, esso potrà forse produrre consenso, ma non genererà giustizia. E senza giustizia, nessuna convivenza politica può essere veramente umana.

 

*Professore strutturato in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario

 «san Domenico» di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico nell’Università degli Studi di Padova.

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