Il Medio Oriente e il ruolo di Israele nell'arena Geopolitica globale
di Salvatore D’Acunto
Negli ultimi 12 mesi, lo scenario mediorientale ha acquisito una centralità sempre più evidente nel quadro delle tensioni nelle relazioni internazionali. Alla sempre più feroce persecuzione della popolazione palestinese nella striscia di Gaza, in atto da Ottobre 2023 e che non accenna ad arrestarsi, si sono andati via via sovrapponendo, nell’ordine: il conflitto tra Israele ed Hezbollah nel sud del Libano nell’autunno del 2024; il conflitto in Siria, che nello stesso periodo ha portato alla destituzione di Bashar-el-Assad e all’instaurazione di un governo di transizione di matrice jihadista; infine, il violento attacco che Israele e Stati Uniti hanno condotto nei confronti dell’Iran nelle settimane appena trascorse, ufficialmente finalizzato a metter fine ad un ipotetico programma nucleare bellico iraniano.
Il concentrarsi di tante esplosioni di violenza nella stessa regione solleva evidentemente questioni interpretative di non facile soluzione. Siamo di fronte a una dinamica caotica, in cui semplicemente vengono a maturazione conflitti lungamente latenti e solo per caso scatenatisi in un arco temporale estremamente ristretto? Oppure c’è un filo sotterraneo che lega i singoli fenomeni bellici attualmente in progress? E nel caso, in cosa consiste questo “filo”? Cosa c’è precisamente in gioco in quell’esercizio quotidiano di violenza che da un anno a questa parte infiamma quasi quotidianamente la regione mediorientale? La tesi che vorrei provare ad argomentare in questo breve commento è che il filo esiste eccome, e ha a che fare fondamentalmente con il destino della globalizzazione. Più precisamente, quello che sembra in gioco oggi sul tavolo del Medio Oriente sono, a mio avviso, le regole che presiedono alla distribuzione dei guadagni della globalizzazione.
Come è noto, la globalizzazione è l’espressione di una tendenza che caratterizza ormai da alcuni secoli, seppure tra “ondate” e successive “risacche”, la dinamica dell’organizzazione economica mondiale.[1] In genere nella storiografia si usa distinguere una prima globalizzazione, che viene abitualmente collocata nel periodo tra il 1850 e il 1914 e che sarebbe stata interrotta dalla “grande guerra”, e una seconda globalizzazione, il cui inizio viene situato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, più o meno in corrispondenza del dissolvimento del blocco sovietico e della conquista della completa egemonia politica e militare globale da parte degli Stati Uniti.
La seconda globalizzazione potrebbe essere suggestivamente raccontata come una straordinaria invenzione partorita nel centro del capitalismo mondiale dai suoi principali attivisti. Costoro, all’esito dell’arresto del processo di accumulazione negli anni 70, prendono atto del fatto che esistono degli invalicabili limiti politici all’accumulazione di capitale su scala nazionale. Infatti, come Michal Kalecki aveva lucidamente prefigurato una quarantina di anni prima,[2] per sostenere l’accumulazione di capitale bisogna estendere progressivamente il processo di creazione di valore, e per estendere la creazione di valore bisogna assorbire masse di lavoratori sempre più imponenti nel sistema produttivo. E poiché la riduzione della disoccupazione rafforza il lavoro dipendente e favorisce lo spostamento di quote significative della ricchezza dal capitale al lavoro, l’incentivo dei capitalisti all’accumulazione tende man mano a ridursi.
In quel frangente, i leader del capitalismo americano partoriscono un’idea geniale: smettiamo di produrre valore e deleghiamo questa funzione al continente asiatico (e più in particolare alla Cina, il Paese più popolato del globo), dove di forza lavoro ce n’è in abbondanza e dove il contesto politico-culturale appare decisamente meno favorevole all’emersione del conflitto distributivo. Per quanto ci riguarda, limitiamoci invece a produrre la moneta (il dollaro) necessaria a sostenere l’infittirsi delle interazioni commerciali tra i diversi angoli del pianeta coinvolti nel nuovo assetto di divisione internazionale del lavoro e a sviluppare la sovrastruttura finanziaria necessaria a riportare negli Stati Uniti i profitti realizzati nelle sedi di delocalizzazione. Compreremo le merci prodotte dal lavoro della popolazione asiatica con i dollari che stampiamo. E se è vero che le occasioni di lavoro per la classe operaia americana si ridurranno, i beni di consumo a buon mercato importati dall’Oriente da un lato e le opportunità di consumo garantite dall’espansione del credito permetteranno comunque il mantenimento di livelli di vita dignitosi.
Decisamente geniale. Appropriarsi di ricchezza senza produrre valore. Il capitalismo senza il conflitto tra capitale e lavoro. Il migliore dei mondi possibili per la classe proprietaria. C’è solo un piccolo problema: ma perché i produttori asiatici dovrebbero accettare in cambio di merci pezzi di carta recanti in facciata la foto di George Washington? Beh, ci sono due possibili spiegazioni, a seconda dei punti di vista. La prima, quella decisamente preferita dagli americani, la possiamo riassumere così: «Perché solo la flotta navale americana, grazie alla sua capacità di controllo dei mari, può garantire che i carichi delle navi mercantili non diventino facili bersagli di atti di pirateria o terrorismo, e quindi che i traffici tra le aree interessate dalla globalizzazione vadano a buon fine». In questa prospettiva, il diritto degli americani di pagare parte del conto della spesa al “supermercato globale” con biglietti verdi stampati dalla propria banca centrale sarebbe una sorta di corrispettivo di un servizio pubblico (appunto la garanzia dei diritti di proprietà).
C’è tuttavia una seconda interpretazione, decisamente più malevola. Secondo qualcuno, la pirateria e il terrorismo sarebbero minacce create ad arte proprio dai soggetti che offrono il servizio di “sicurezza”, nella migliore tradizione delle organizzazioni mafiose,[3] e quindi la possibilità degli americani di liberarsi dai propri debiti mediante la cessione di un oggetto la cui produzione non richiede lavoro, più che come il corrispettivo di un servizio pubblico andrebbe interpretato come una tangente.
In ogni caso, che si tratti di “tassa” o di “tangente”, fino a un certo momento questo peculiare schema di governo della divisione internazionale del lavoro va bene a tutti. In particolare, va bene ai due principali protagonisti, Stati Uniti e Cina, tra i quali viene a crearsi un curioso intreccio di interessi complementari. Pechino dipende dagli Usa per le proprie esportazioni e per il sostegno della valuta nazionale garantito dalle riserve in dollari; Washington dipende dalla Cina per il fiume di importazioni a buon mercato che sostiene il potere d’acquisto della popolazione e i profitti delle imprese americane, nonché per il finanziamento del crescente debito (pubblico e privato) con cui compensa la carenza di risparmio interno. I due attori-chiave sullo scenario economico internazionale appaiono quindi invischiati in un equilibrio di dipendenza reciproca a cui nessuno è in grado di sottrarsi, e la globalizzazione sembra quindi destinata ad avere lunga vita.[4]
E invece, negli anni successivi, quell’equilibrio tenderà pian piano a deteriorarsi. La Cina approfitta dello straordinario ritmo di crescita consentitogli da quell’assetto di divisione internazionale del lavoro per consolidarsi sul piano infrastrutturale, tecnologico e politico, e comincia a pensare da potenza globale. Non ci sta più a lasciare che una parte tanto consistente del valore creato con il lavoro dei cittadini cinesi vada ad arricchire i capitalisti americani, e cerca di determinare le condizioni per modificare i rapporti di forza. E poiché il fattore strategico che permette agli Stati Uniti di “taglieggiare” i partners commerciali è il controllo delle rotte navali, la Cina decide di costruirsi un corridoio logistico che le permetta di connettersi ai principali mercati di fornitura e di sbocco by-passando il mare: la nuova Via della Seta.
Ora, è sufficiente dare uno sguardo alla mappa della Via della Seta per comprendere il motivo della centralità geopolitica acquisita dal Medio Oriente - e più in particolare dall’Iran e della Turchia - nell’ultimo decennio: il Medio Oriente è il naturale corridoio terrestre per il passaggio delle merci, e Iran e Turchia sono i Paesi che, in base agli accordi di cooperazione sottoscritti con la Repubblica Popolare Cinese, dovrebbero ospitare sul proprio territorio una parte importante dell’infrastruttura. Pertanto, dal fatto che questi due Paesi siano governati da élites più o meno “sensibili” agli interessi geopolitici degli Stati Uniti dipende in misura decisiva la capacità della potenza americana di continuare a “governare” la globalizzazione, e quindi a imporre il dominio della propria valuta negli scambi internazionali.
Come è noto, allo stato attuale, gli Stati Uniti non sembrano messi benissimo in termini di capacità d’influenza nei confronti di questi due Paesi. A partire dalla rivoluzione del 1979, la politica estera dell’Iran si è sempre caratterizzata per un intransigente anti-americanesimo. La Turchia è organica alla NATO, ma l’élite che la governa si è sempre dimostrata molto poco propensa a sacrificare i propri interessi economici e politici nazionali in nome degli obiettivi geopolitici degli Usa. L’interesse degli Stati Uniti a determinare, con le buone o con le cattive, un mutamento degli orientamenti di politica estera di almeno uno di questi due Paesi è quindi evidente: se ci riescono, si assicurano per qualche altro decennio il controllo delle rotte commerciali internazionali, e quindi conservano ancora per un pò la possibilità di prosperare estraendo ricchezza dal lavoro delle popolazioni asiatiche. Viceversa, la Cina e tutto l’ecosistema produttivo “satellite” si emancipano dalla tutela statunitense, e quindi dal costo economico dell’uso della sovrastruttura monetaria e finanziaria americana.
Questa è la vera posta in gioco nei conflitti in corso in Medio Oriente. I valori della libertà e della democrazia, che vengono abitualmente sventolati per giustificare l’aggressività americana sullo scenario mediorientale, sono nient’altro che un dispositivo retorico con cui i media occidentali provano a nasconderne le reali cause. Queste riflessioni dovrebbero anche aiutare a capire meglio le ragioni, altrimenti difficilmente spiegabili, del peso politico di cui Israele gode in questo momento storico. Israele è uno Stato molto piccolo, poco popolato e privo di risorse naturali. Difficile spiegare come sia venuto in possesso di una capacità bellica tale da competere alla pari con i molto più estesi, popolati e ricchi Stati dell’area mediorientale. E’ evidente che tutto ciò può essere spiegato solo con l’ingente sostegno degli Stati Uniti. E se Israele riceve un sostegno politico, finanziario e militare di tale dimensione è perché gli Usa le hanno assegnato un ruolo chiave in quello snodo geopolitico cruciale per i loro interessi. Israele è una sorta di “gendarme” incaricato di fare da ostacolo al realizzarsi del modello alternativo di globalizzazione che la Via della Seta renderebbe possibile.
Questa stretta connessione strategica ha degli effetti a volte sorprendenti. Con riferimento alla vicenda di Gaza e alla “guerra dei 12 giorni” tra Israele e Iran, è stato spesso sottolineato dai commentatori come Israele sia riuscito spesso a trascinare gli Stati Uniti in forme di coinvolgimento oggettivamente in conflitto con i relativi interessi geopolitici. Tuttavia, tutto si spiega proprio alla luce della estrema importanza del ruolo che Israele ricopre nello scenario medio-orientale per conto degli Stati Uniti. Quando il governo di un Paese ha consapevolezza di stare facendo un «lavoro sporco» per conto di altri, per usare le parole del cancelliere Merck, esso ha tutta la convenienza ad alzare la posta, ben sapendo che difficilmente gli verrà negato il sostegno richiesto.
[1] S. D’ACUNTO, Relazioni pericolose: l’ordine economico tra “amicizia” e relazioni anonime, Endoxa, 9 (51), https://endoxai.net/2024/09/27/relazioni-pericolose-lordine-economico-tra-amicizia-e-interazioni-anonime/.
[2] M. KALECKI, Political Aspects of Full Employment, The Political Quarterly, 1943.
[3] D. GAMBETTA, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino, 1992.
[4] F. MARONTA, Cronaca di un decoupling annunciato, Limes, n. 4/2023.