Il mondo multipolare che (involontariamente) abbiamo costruito
di Giuseppe Matranga
Siamo piombati in un mondo multipolare senza neanche rendercene conto. Ma non è stato un caso: è il risultato delle nostre scelte economiche e politiche.
Un capitalismo orientato al profitto immediato, la delocalizzazione produttiva e la supremazia finanziaria hanno creato un sistema globale apparentemente efficiente, ma in realtà profondamente squilibrato.
Dietro questa trasformazione si muove una forza silenziosa e sistemica: il neocolonialismo capitalistico, un dominio economico che ha sostituito quello militare e politico del passato.
Il capitalismo dei manager e la miopia del breve periodo
Il capitalismo contemporaneo è dominato dalle società per azioni e dai manager a contratto breve.
La durata media di un incarico dirigenziale — tre, quattro, cinque anni — impone una logica di risultati immediati. Il manager deve centrare gli obiettivi prima della scadenza del contratto, non costruire strategie sostenibili.
Questo modello ha reso il sistema incapace di guardare oltre il trimestre. Gli investimenti di lungo periodo, la ricerca e la formazione sono stati sacrificati in nome della redditività immediata.
Così la delocalizzazione produttiva è diventata la scorciatoia perfetta: abbattere i costi del lavoro, aumentare i margini, spostare la produzione dove le regole erano più deboli.
Dal colonialismo territoriale al neocolonialismo finanziario
Il colonialismo tradizionale imponeva la dominazione politica diretta: le colonie fornivano materie prime alla madrepatria, che le trasformava nei propri centri industriali, mantenendo i territori conquistati in uno stato di dipendenza, ignoranza e povertà perenne.
Il neocolonialismo capitalistico, invece, agisce a livello economico e finanziario.
Non occupa territori, ma installa fabbriche e capitali in paesi dotati di un’autonoma indipendenza politica; non governa popoli, ma controlla filiere produttive.
Così paesi un tempo periferici — come Cina e India — sono diventati piattaforme industriali al servizio del consumo occidentale.
Nel breve periodo, l’Occidente ha sfruttato la loro manodopera a basso costo; nel lungo, ha trasferito tecnologie, know-how e risorse che oggi permettono a quei paesi di competere e superare i centri economici originari.
Un meccanismo nato per mantenere il dominio che ha finito per distribuirlo e mettere i nostri avversari strategici nella posizione di dominarci.
Il boomerang della globalizzazione e la crisi dell’unipolarismo americano
Il risultato di queste dinamiche è la fine del mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti.
Per decenni Washington ha garantito la globalizzazione attraverso il controllo dei commerci marittimi, delle rotte finanziarie e dell’ordine politico internazionale (gestito con la forza).
Oggi però quel sistema è in crisi:
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tecnologicamente, perché la Cina e altri paesi asiatici hanno colmato il divario;
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economicamente, perché la delocalizzazione ha eroso la base produttiva interna dell’Occidente;
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geopoliticamente, perché la potenza militare diviene ridimensionata, nei confronti di avversari giganti, e in definitiva non basta più a controllare un mondo frammentato.
L’Europa resta vincolata all’ombrello americano, ma gli Stati Uniti non riescono più a mantenere l’egemonia con la stessa forza.
Le guerre “periferiche” in Afghanistan, Iraq o Libia sono stati tentativi di riaffermare un controllo che, in realtà, si sta disgregando.
Contro potenze come la Cina, invece, Washington è costretta a negoziare e condividere il potere.
Il costo interno della delocalizzazione: declino sociale e crisi del welfare
Dal punto di vista economico e sociale, il capitalismo della delocalizzazione ha prodotto effetti devastanti anche all’interno dei paesi più ricchi.
Il sistema è semplice: se si sposta la produzione all’estero, viene a mancare la forza lavoro nei paesi di origine.
Le industrie chiudono, la disoccupazione cresce, la classe media si restringe, e lo Stato deve sostenere costi sociali sempre più alti per garantire un welfare che non riesce più a finanziare.
Mentre nei paesi emergenti cresce l’occupazione qualificata e i salari aumentano, nei paesi sviluppati si assiste a una progressiva perdita di benessere, all’aumento dei debiti pubblici e alla riduzione della mobilità sociale.
L’Occidente non è più in grado di mantenere gli standard di vita che aveva costruito nei decenni del boom industriale, perché non produce più abbastanza valore reale al proprio interno.
La nuova frontiera: l’intelligenza artificiale
A questa crisi strutturale si aggiunge oggi una nuova rivoluzione: quella dell’intelligenza artificiale.
Per la prima volta nella storia, la trasformazione tecnologica non colpisce solo i lavoratori manuali, ma le professioni intellettuali e manageriali.
Nel passato, l’innovazione tecnologica aveva sostituito la forza lavoro nei campi e nelle fabbriche: le macchine agricole, i robot industriali, l’automazione meccanica.
Oggi, invece, l’intelligenza artificiale minaccia i professionisti, gli impiegati, gli amministratori, ovvero quella classe media che finora era rimasta protetta dal progresso tecnologico.
Paradossalmente, chi lavora con le mani — l’artigiano, l’elettricista, l’idraulico — potrebbe risultare meno vulnerabile di chi lavora con la mente.
È una rivoluzione che rischia di capovolgere le gerarchie del lavoro e di accelerare la crisi sociale dell’Occidente.
Le responsabilità occidentali e la sfida del lungo periodo
Il mondo multipolare non è una fatalità: è la conseguenza di un sistema economico che ha sacrificato la visione alla convenienza.
Rimettere in equilibrio il sistema significa cambiare logiche profonde:
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promuovere politiche industriali di lungo periodo;
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investire in formazione, ricerca e welfare sostenibile;
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riequilibrare le catene del valore globali;
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ridare centralità all’etica del lavoro e della responsabilità sociale.
Solo un capitalismo che torni a guardare oltre il trimestre, oltre il contratto e oltre il confine potrà evitare che la prossima rivoluzione — quella digitale e cognitiva — approfondisca le disuguaglianze invece di ridurle.
Conclusione
Il mondo multipolare nel quale viviamo è una creazione dell’Occidente stesso.
Il neocolonialismo capitalistico, nato per garantire dominio e profitto, ha redistribuito il potere e indebolito le società che lo hanno generato.
Oggi, l’Occidente paga il prezzo della propria miopia: ha delocalizzato non solo le fabbriche, ma il futuro.
La sfida che ci attende non è solo economica, ma culturale e politica: riportare il lavoro, la conoscenza e la responsabilità al centro di un sistema che ha smarrito la sua dimensione umana.
Solo così il mondo multipolare potrà essere una rete di cooperazione e non l’ennesimo campo di disuguaglianze globali.

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