L'Afghanistan è il nuovo Vietnam americano

L'Afghanistan è il nuovo Vietnam americano

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I talebani stanno prendendo in fretta il controllo di tutte le città afghane, con l’obiettivo, non ancora dichiarato, di prendere Kabul. Notizie strazianti giungono dal Paese, nel quale le moltitudini fuggono di fronte all’avanzata delle milizie islamiche.

Da registrare che l’informazione su quanto sta accedendo ha un tono drammatizzante, al contrario di altre guerre, come ad esempio quella in Yemen, dove i raid aerei dell’alleanza guidata dai sauditi, che pure da anni fanno strage di civili e bambini, non hanno guadagnato nemmeno un millesimo della copertura mediatica data alla guerra dei talebani.

Ma non è sull’usuale miopia mediatica che vogliamo appuntare l’attenzione, quanto sulle notizie in sé.

Al solito, è difficile districarsi nel bailamme dell’informazione, e spesso il bombardamento mediatico impedisce di porsi le domande più banali.

In particolare sulla ferocia delle milizie in questione. Se ci si fa caso, i notiziari non riportano notizie di stragi di civili, né di massa né più limitati.

Al massimo i media riportano notizie di matrimoni forzati, con i talebani che andrebbero nelle case a sposare a forza le donne. Pratica odiosa, ma che potrebbe essere anche frutto di propaganda, che usa di eventi reali dilatandoli oltremisura.

A fare insospettire in tal senso la reiterazione automatica di tale notizia, che rimbalza sui media sempre uguale a se stessa, come accade per le news diffuse nella rete dai bot.

Non è una campagna in stile Isis

Ma al di là della veridicità della notizia, resta che è questa la pratica più feroce denunciata finora. Nessuna notizia, appunto, di stragi indiscriminate, pur se i morti ammazzati non mancano.

Data l’enfatizzazione mediatica di cui sopra, vuol dire che semplicemente, almeno al momento, non avvengono eccidi. Cioè che le milizie islamiche, quando prendono il controllo di un’area, non infieriscono più di tanto sulla popolazione.

Non stiamo affermando che, arrivati in un posto, distribuiscano fiori, o che la guerra in corso sia cosa buona e giusta, che tutte le guerre hanno i loro orrori, ma che è una guerra come altre e soprattutto del tutto diversa da quella portata in Siria e Iraq dall’Isis e da al Nusra – milizie alle quali i talebani sono spesso associati -, le cui conquiste sono state disseminate di orrori indicibili.

Quella alla quale stiamo assistendo è, con tutti i limiti del caso, una guerra di liberazione: dopo venti anni di occupazione americana, gli afghani si stanno riprendendo il loro Paese.

Certo, a condurla sono milizie islamiche, ma chi voleva combattere l’invasore non aveva altra scelta che loro. E tanti afghani comuni, che hanno vissuto la presenza Usa come una disgrazia, si sono intruppati in tal modo.

Tra questi, di certo anche tanti che hanno visto i loro cari  sterminati dai droni made in Usa (“incidenti” che possono capitare, soprattutto se si sganciano dal cielo centinaia di migliaia di bombe, come da titolo della rivista del MIT: “La vita nel Paese più bombardato del mondo“).

Peraltro, i ribelli non hanno l’esclusiva della ferocia, dato che a guidare l’esercito di Kabul è stato chiamato (o su suggerimento Usa o certo col loro placet) Rashid Dostum, già signore della guerra con un curriculum disseminato di crimini inenarrabili.

L’Afghanistan come il Vietnam

Sui media americani la guerra afghana trova spesso paralleli con quella del Vietnam, anch’essa terminata con il frettoloso ritiro delle truppe Usa.

Tanto frettoloso che quando i marines si sono ritirati dallo strategica quanto simbolico aeroporto di Bagram, lo hanno fatto di notte, senza neanche avvertire gli afghani di stanza alla base.

I media Usa si interrogano sulla disfatta, perché di questo si tratta, come ormai è chiaro a tutti. E sul fatto che tale esito era chiaro da tempo.

Tanto che Ishaan Tharoor sul Washington Post spiega che i presidenti Usa lo sapevano già dal 2005-06. ma hanno deciso di far finta di niente. Esattamente quel che è accaduto con il Vietnam.

Perché, come per il Vietnam, nessuno di loro voleva passare alla storia come il presidente che aveva perso una guerra, né, soprattutto, ha avuto il coraggio di sfidare a fondo i falchi, se non Trump e a fine mandato.

Biden ha avuto questo coraggio e si è ritirato, dando compimento all’impegno di Trump (e attirandosi l’odio di falchi, che stanno montando una campagna per restare nel Paese: l’enfatizzazione mediatica di cui sopra serve a questo).

Patti violati. Da chi?

Certo, i patti erano che i talebani si accordassero con Kabul. Ma qualcuno ha rotto i patti, e forse non solo i talebani, dato che la campagna per contrastare la decisione presidenziale si è accompagnata con alcuni bombardamenti realizzati dai B-52, le cui bombe sono ancora meno intelligenti di altre (e probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg di operazioni più oscure e segrete).

Peraltro, l’accordo era davvero difficile. Se ci si mette nei panni dei talebani, era come se al termine della Seconda guerra mondiale si fosse chiesto a Parigi di accordarsi con Vichy.

Così la parola resta alle armi, con l’esercito afghano, armato e addestrato dagli Usa, che si sta squagliando come neve al sole, pur se tre volte superiore al nemico.

A decretarne il collasso le defezioni di massa, che indicano il tasso di adesione all’asserita “democrazia” afghana creata da Washington, ma che hanno anche evitato scontri più feroci.

Biden per ora tiene il punto, potendo anche ostentare l’immane costo della guerra afghana (1.5 trilioni di dollari) a fronte di risultati così minimali. Ma la situazione è magmatica e in evoluzione: come per gli altri Paesi devastati dalle guerre infinite, la variabile caos da queste prodotte sfugge a previsioni e controlli.

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