Lavoro e vita
di Giuseppe Giannini
Il 1 maggio è passato in sordina ancora una volta. C'è poco da festeggiare. Il governo continua con la propaganda filopadronale e diffonde dati parziali e decontestualizzati sull'occupazione, tacendo sulla produzione industriale in calo da due anni. Manca una visione d'insieme sulle sfide imminenti (l'impatto dei dazi e della competizione globale) e quelle future (l'intelligenza artificiale).
I referendum sul lavoro previsti a giugno inducono ad una riflessione. Nel caso specifico l'intento è quello di reintrodurre ed estendere diritti prima contemplati dallo Statuto dei diritti dei lavoratori e dalla Costituzione e falcidiati da dieci anni dal jobs act di Renzi. Il quale è andato oltre Berlusconi, proseguendo nel taglio dello Stato sociale tipico delle politiche liberiste fatte proprie da tutti i partiti che hanno governato nell'ultimo quarto di secolo. Non dimentichiamo infatti che la precarietà inizia nel 1997 grazie al Pacchetto Treu.
Se volgiamo lo sguardo indietro vediamo come oramai da decenni assistiamo impotenti alle solite condanne di facciata (la retorica istituzionale sulle morti bianche), mentre nei fatti la sostanza non cambia.
Il lavoro è sempre più irregolare e frammentato. E' organizzato male e, soprattutto nei settori dove sono richieste operazioni manuali e di fatica, per tutta una serie di fattori (l'insalubrità dei luoghi, i turni estenuanti, la mancanza dei controlli) si corre il rischio di infortuni e di morire.
Poi ci sono gli esempi virtuosi, riscontrabili lì dove il lavoro è appagante sia dal punto di vista del coinvolgimento emotivo che per quanto riguarda le condizioni od il salario. E parliamo di rapporti contrattualizzati e rispondenti alla formazione/inclinazione dei prestatori. Fino alle eccezioni costituite dalla settimana corta lavorativa che, seppur con ritardo rispetto agli altri Paesi, è presente in diverse realtà aziendali.
Ogni singolo punto andrebbe analizzato ma vorrei fare delle osservazioni sul concetto stesso di vita lavorativa.
Secoli di progresso e presunta evoluzione eppure siamo ancora sottoposti all'implicito ricatto della necessità. Senza scomodare le analisi di Marx su chi detiene i mezzi di produzione e su come la società venga modellata e suddivisa tra dominanti e sudditi. Senza tirare in ballo Keynes, che circa un secolo fa prefigurò in vista delle scoperte scientifiche e del benessere generale diffuso un lavoro più agevole di poche ore al giorno (quindici ore settimanali), rimangono le inefficienze, le storture, gli abusi. Se pensiamo che la conquista della giornata lavorativa di 8 ore risale al 1923, e che sempre un secolo fa le aziende, a partire dalla Ford, introdussero la settimana da 40 ore, possiamo tranquillamente affermare che c'è qualcuno che vuole tenerci legati. Nemmeno l'automazione è riuscita a liberarci dalle catene.
Anzi, ha introdotto un modo sottile di asservimento. Con essa la rete diventa lo strumento opaco di messa al lavoro full time di miliardi di utenti-consumatori di contenuti che producono ricchezza non ripartita. Attività volontarie di fruizioni di servizi per il quale spendiamo ore del nostro tempo non retribuito.
Altro che redistribuzione del lavoro. L'eterno assillo di una esistenza alle dipendenze altrui. Il problema è culturale. Solo cambiando il paradigma di riferimento è possibile pensare ad una vita diversa. Affrancarsi dalle necessità indotte e dai bisogni voluttuari. E da quel meccanismo perverso che rende gli individui schiavi o proprietari. Animali non più politici, ma automi che per sfuggire l'alienazione cercano nel possesso la ragion d'essere.
E' il capitalismo!, quel mostro tentacolare che mettendo al centro il profitto su ogni cosa si serve di tutto (persone, ambiente, territori) per continuare a mantenersi in forma. La vita activa come ci ricordava Hannah Arendt non è unicamente quella del fare ma anche quella contemplativa. Solo se presenti in noi stessi potremmo recuperare la dimensione dell'esistenza naturale che ci mette in relazione (non mercificata) con gli altri.
Quella partecipazione alla vita pubblica messa in discussione da una serie di elementi. Storicamente sono stati la morale cristiana e l'affermarsi dei dispositivi di controllo successivi alla rivoluzione industriale i fattori attraverso i quali il potere religioso, economico, e politico, hanno rimodellato il concetto di tempo. La sottrazione della dimensione pubblica-relazionale trasformata in quella privatistico-proprietaria. Da allora attivo è chi contribuisce con il lavoro ad un sistema di pianificazione sociale calato dall'alto. Così l'opera dell'uomo si avvale degli strumenti e della materia della natura, modificandola e distruggendola. Adattando i comportamenti a seconda delle esigenze della produzione. Tranne per quei privilegiati che del lavoro possono fare a meno, in quanto beneficiari di rendite di status, acquisite in base all'eredità, e alla schiavitù altrui.
Negli anni'60 il mondo occidentale sperimentava un miglioramento della qualità della vita: generazioni con lavoro e stipendi superiori a quello dei genitori, accesso al consumo, tempo libero. La certezza di un lavoro stabile creava la fiducia nel futuro e consolidava il legame cooperativo con i colleghi. La ventata restauratrice inizia nei successivi '70 . Con l'instaurarsi del neoliberismo sono venute meno le conquiste sociali. Gli Stati hanno fatto diversi passi indietro.
L'edonismo degli anni '80 ha proiettato nei decenni a venire il superamento della lotta di classe, che accomuna l'ideologia liberista al fascismo. Quindi, da allora, le economie deregolamentizzate cominciano a patire la concorrenza al ribasso di un mondo globalizzato in competizione. La flessibilità sostituisce la rigidità del mercato del lavoro caratterizzato spesso da aziende che non investono in ricerca ed innovazione. Ne risentono la qualità del lavoro e la sicurezza.
La concorrenza sleale di produzioni trasferite altrove (delocalizzazioni) ha avuto le sue ripercussioni anche all'interno (demansionamento, riduzione dei diritti). All'inizio il risparmio dei costi aziendali veniva facilitato da tassazioni agevolate o da salari nettamente inferiori. Poi la possibilità di scavalcare tutta una serie di normative (ambientali, legate alle condizioni dei lavoratori) ha normalizzato questo modo di fare impresa. Lo sfruttamento si è fatto norma, attraverso meccanismi che ne hanno legalizzato lo status: la catena dei subappalti, l'atipicità dei contratti, le detassazioni, i cunei fiscali. Nella discontinuità lavorativa lo sfruttamento accompagna l'illegalità.
La mole di lavoro poco e male retribuito è soggetta agli umori del mercato. Più che alle aspettative degli operatori ( incontro tra domanda e offerta, richieste dei produttori e consumatori) si guarda alle esigenze, in termini di guadagno, degli investitori: azionisti e fondi speculativi. Di conseguenza, la classe media è quasi evaporata ed è la guerra di tutti contro tutti per scalare posizioni all'interno di una introiettata mentalità parassitaria a cui stanno a cuore il prestigio e l'arrivismo. La condizione degli altri, di chi non ce l'ha fatta, non ha possibilità, o si è trovato improvvisamente in povertà perchè ha perso il lavoro o sono sopraggiunti problemi di salute, diventa un peso sociale da eliminare.
I nuovi poveri oggi lavorano perlopiù nei settori fondamentali. Dediti ad incombenze materiali dove la fatica si sposa con la responsabilità, nei servizi essenziali alla persona, alla cura, all'educazione e alla sicurezza. In veste di sostituti di quel welfare una volta garantito dagli Stati.
La stessa meritocrazia diventa un'arma per escludere. Il titolo di studio non serve. Contano l'appartenenza al giusto giro (famigliare, politico) e la raccomandazione come sponsor di una competenza inventata al momento. E nella competizione al ribasso tra le nuove generazioni alla ricerca di uno sbocco occupazionale, e i vecchi lavoratori usurati, che diventano troppo presto scarti da eliminare, vengono ad inserirsi le nuove invenzioni tecnologiche. Da internet all'intelligenza artificiale. Innovazioni che se hanno semplificato alcune operazioni comunque comportano la scomparsa di interi settori produttivi e con essi di centinaia di milioni di posti di lavoro. Gli improduttivi di oggi allargano le fila dei non desiderati dal sistema, al pari dei pensionati, degli invalidi, inabili e portatori di handicap.
Per fuoriuscire dal modello capitalistico fondato sullo sfruttamento possono esservi varie soluzioni. La prima, e più immediata, sarebbe quella di attribuire nuovamente agli Stati i poteri di regolamentazione delle economie, al fine di evitare ogni forma di sfruttamento dell'esistente. Distribuire il lavoro, ridurre gli orari e le giornate lavorative. Garantire un salario stabile, sicuro, ed adeguato al costo della vita. E per chi non ha possibilità adeguate un reddito di dignità e di autodeterminazione.