Le ricette confindustriali faranno ripartire il paese?

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Le ricette confindustriali faranno ripartire il paese?

 

di Federico Giusti

Nel Convegno Nazionale dei giovani imprenditori tenutosi recentemente a Rapallo è stato chiesto al Governo di trasformare il nostro paese adattandolo ai bisogni dei giovani. Un invito certamente non nuovo e tale da dover essere contestualizzato ad esempio legando l’esortazione alle crescenti paure per la impresa europea in tempi di dazi e incertezza economica.

 La posizione assunta dai Giovani industriali impegnerebbe gli stessi ad intraprendere politiche ben diverse dal passato, in Italia manca un bilancio dei processi di delocalizzazione produttiva, di svendita della impresa pubblica, di politiche fiscali particolarmente favorevoli che tuttavia non hanno spianato la strada a investimenti innovativi. E prova ne sia, non senza la solita allarmante miopia, la richiesta di abbassare ulteriormente la pressione fiscale (giudicata troppo onerosa) sulle imprese per non pregiudicare crescita ed esportazioni.

Quanto emerge da questa ennesima riunione dei giovani confindustriali segue un copione già noto ai nostri lettori, il Governo deve spendere di più e meglio i suoi soldi, salvaguardare meno lo status quo e guardare al futuro accrescendo le spese per istruzione, ricerca e sviluppo che sono sotto la soglia europea in un paese nel quale in 10 anni sono partiti circa 365 mila giovani verso nazioni estere, 100 mila dei quali sono laureati e classificati come cervelli in fuga. E sempre in Italia risultano due milioni i giovani che non studiano e non lavorano.  Potremmo parlare, senza offesa, della classica scoperta dell’acqua calda con un paese che ha mantenuto il numero chiuso in facoltà strategiche con laureati insufficienti per colmare i pensionamenti.

Ma il numero chiuso, e con esso i meccanismi selettivi post iscrizione adottati dal Governo, resta non solo una assurdità ma anche la sopravvivenza di logiche di potere baronali sopravvissute nel tempo e oggi forse più forti di prima anche per l’insorgere di nuovi Ordini, di sindacati di mestiere….

E accusare il welfare italiano di riservare troppa attenzione agli anziani è un nonsense se pensiamo che il nostro paese da qui a pochi anni sarà abitato da vecchi e le nascite saranno di gran lunga inferiori alle morti. Se nel 2024 sono nati ben 370mila bambini in meno, presto avremo ripercussioni negative anche al momento di formare le classi nelle scuole elementari e prima ancora le sezioni nelle materne.

Per mettere su famiglia e fare dei figli devono esserci delle condizioni minime di tranquillità come la presenza di un lavoro stabile, un affitto a basso costo dentro un piano di edilizia sociale oggi invece assente, dei nidi facenti parte della Pubblica istruzione e non relegati a servizi a domanda individuale, orari di lavoro agevolati per la cura dei figli.

Ma queste misure presuppongono la presenza di uno Stato molto più attivo, in un welfare funzionante, di risorse maggiori di quelle attuali, altro che Ires premiale, si rende necessario pagare maggiori tasse in misura progressiva rispetto al reddito percepito e la certezza che questi fondi siano realmente indirizzati ad ampliare il welfare.

Confindustria scopre perfino il divario di genere che nel nostro paese si è acuito negli ultimi lustri per l’ascensore sociale fermo e per la cui ripartenza si rendono indispensabili politiche opposte a quelle liberiste.

Le analisi dei Giovani industriali sono stantie e in sostanza ideologiche, insomma le classiche ricette neoliberiste, risulta invece più acuta l’analisi effettuata a fine giugno dal centro studi di Confindustria sulla perdita di fiducia della classe imprenditoriale:

Giugno: le imprese sono più prudenti | Confindustria da cui estrapoliamo un interessante grafico

Nel corso dell’anno sono cresciuti i non ottimisti ossia i prudenti che guardano alle sorti dell’economia con crescente preoccupazione. Leggiamo testualmente cosa scrivono i padroni senza aggiungere commenti nostri

 In media nel secondo trimestre le aspettative sono lievemente più caute rispetto al primo quarto dell’anno: aumenta il numero di intervistati che crede che la produzione rimarrà costante (62,4%), compensato da una diminuzione degli ottimisti (23,8%), mentre resta quasi inalterata la quota di imprese che attende una diminuzione (13,8%) (Grafico 1).

Gli industriali intervistati nel mese di giugno considerano domanda e ordini come i principali punti di forza a sostegno della produzione. Il saldo aumenta in modo significativo rispetto a maggio, salendo al 6,1% dal precedente 4,5% (Grafico 2).

Le aspettative delle imprese sulla disponibilità di manodopera nei prossimi mesi tornano a essere favorevoli (1,1% da -1,4%).

Il saldo relativo ai costi di produzione, già negativo nella rilevazione di maggio, è in diminuzione (-6,2% da -5,6%).

I giudizi riguardo alle condizioni finanziarie restano in territorio negativo a giugno (-0,7% da -0,3%).

Per quanto riguarda la disponibilità di materiali, il saldo delle risposte di giugno, leggermente negativo (-0,1%), mostra un miglioramento rispetto al valore registrato a maggio (-0,6%).

Il giudizio degli industriali sulla disponibilità degli impianti registra a giugno un netto peggioramento, passando da 3,3% a -0,2%.

Alla luce di queste osservazioni l’ottimismo Meloniano stride con le preoccupazioni delle associazioni datoriali e un ulteriore tassello andrebbe aggiunto, da parte nostra, sul lavoro, sulla presunta facilità di trovare una nuova occupazione dopo un licenziamento. Le statistiche dicono invece che solo quanti risultano in possesso di specializzazioni e competenze possono aspirare a un nuovo impiego nell’arco di pochi mesi, per tutti gli altri lo spettro della disoccupazione si fa sempre più forte.

E poi chi perde il lavoro e ne ritrova un altro, proprio dopo la Riforma Fornero, perde salario, mediamente quasi un centinaio di euro al mese giusto a ricordare che non solo la scarsa mobilità sociale nasce dalla carenza di posti di lavoro e di percorsi formativi debitamente organizzati. Per trarre una idea convincente di quanto abbiamo fino ad ora asserito si rinvia a un portale di economia assai moderato come quello de Lavoce.info

I nostri dati non includono il salario mensile, ma solo la retribuzione del primo mese del nuovo contratto e come tale va considerato quando parliamo di salario. Consideriamo l’evoluzione nel tempo – misurato in mesi dall’evento della perdita del lavoro – del salario, della probabilità di occupazione e della probabilità di occupazione con contratto a tempo indeterminato. 

Ecco i risultati principali dell’analisi. A dodici mesi dalla perdita del lavoro, i lavoratori che hanno perso l’impiego dopo la riforma guadagnano in media 222 euro in meno rispetto al lavoro precedente. Per chi ha perso il lavoro prima della riforma, la perdita salariale è di 78 euro. La riforma ha dunque aumentato il costo di circa il 15 per cento del salario precedente, accompagnato da una riduzione di 7 punti percentuali nella probabilità di reimpiego (41 per cento per i lavoratori post-riforma contro 48 per cento per quelli pre-riforma). Non si osservano effetti statisticamente significativi sulla probabilità di reimpiego con un contratto a tempo indeterminato. Dopo 33 mesi, la perdita salariale è pari al 4 per cento, ovvero 137 euro nel gruppo post-riforma contro 99 euro per il gruppo di controllo. La probabilità di essere occupati è più bassa di un punto percentuale per i lavoratori del gruppo trattato (37 contro 38 per cento).

Perdere il lavoro costa di più dopo la riforma Fornero - Lavoce.info

Quando Confindustria asserisce che il nostro paese non è a misura di giovani dovrebbe spiegare la ragione del loro plauso a politiche di precarizzazione che hanno colpito soprattutto le fasce sociali più fragili e appunto le giovani generazione amplificando le disuguaglianze esistenti e spostando verso il basso le condizioni dei lavoratori cosiddetti “protetti”. La facilità di licenziamento, il jobs act, lo stravolgimento delle norme contrattuali sono le cause della attuale situazione e quindi se si critica la scarsa propensione verso i giovani non è possibile avallare e invocare politiche di precarietà e di abbattimento delle tasse

 

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