Loretta Napoleoni - Il crollo del mito Moody's
di Loretta Napoleoni
Moody’s declassa il debito sovrano degli Stati Uniti e la corsa a svendere i titoli e gli investimenti americani riprende con forza. Ma c’e’ davvero da fidarsi delle agenzie di rating? Sono veramente infallibili, imparziali ed al disopra di ogni sospetto? Vediamo di rispondere a questa domanda.
Nel cuore pulsante della finanza globale, Moody’s è un attore che da decenni gioca un ruolo cruciale nel determinare chi è meritevole di fiducia e chi no. Ma in passato, anche in un passato molto vicino, Moody’s ha fatto gravi errori, con conseguenze disastrose, ad esempio nel 2008. Quando il mondo si trovò inaspettatamente travolto dal crollo del sistema finanziario americano, le agenzie di rating, tra cui Moody’s, vennero accusate di non aver fatto il loro lavoro. Non solo non avevano visto arrivare la crisi, avevano mentito nei loro rapporti e cosi’ facendo l’avevano alimentata, assegnando valutazioni massime a prodotti finanziari tossici. Potrebbe succedere oggi la stessa cosa? E perché no? Il vizio di forma è nella struttura stessa dell’economia canaglia: un sistema autoreferenziale in cui chi vende titoli paga anche per farli valutare e compra dalle agenzie di rating i rapporti e le valutazioni finanziarie. Un circolo chiuso che facilmente diventa vizioso
Durante gli anni precedenti alla crisi del 2008, Moody’s, insieme a Standard & Poor’s e Fitch, le altre agenzie di rating, giocarono un ruolo fondamentale nell’innescare la bolla dei mutui subprime a causa di questo meccanismo autoreferenziale. Vale la pena ricordarne i punti chiave. Titoli altamente rischiosi venivano impacchettati in strumenti finanziari complessi come le mortgage-backed securities (MBS) e i collateralized debt obligations (CDO), e ricevevano valutazioni massime – spesso la famigerata tripla A – da parte delle agenzie di rating. Il paradosso era che in questi titoli la percentuale di mutui o prestito concessi a mutuatari senza garanzie solide, spesso incapaci di rimborsare, era alta. Le false valutazioni crearono l’illusione di sicurezza che a sua volta attirò investitori istituzionali da tutto il mondo. Quando i mutuatari iniziarono a non essere piu’ in grado di pagare, l’intero castello crollò.
È sconvolgente che anche in questo contesto le agenzie di rating, lungi dal suonare un campanello d’allarme, contribuendo cosi’ a gonfiare ulteriormente la bolla immobiliare. Un fallimento sia dal punto di vista tecnico che etico: invece di valutare il rischio reale degli strumenti finanziari, queste istituzioni avevano venduto fiducia. Ma come puo’ un’organizzazione a scopo di lucro vendere un tale bene?
Ora Moody’s torna alla ribalta, declassando gli Stati Uniti da Aaa ad Aa1, scatenando una reazione a catena: rendimenti in aumento, caduta degli indici, scetticismo sul dollaro. Ma questa volta il declassamento arriva dopo che i mercati hanno già scontato l’instabilità fiscale, dopo che le politiche fiscali espansive, i tagli alle tasse non finanziati e l’aumento della spesa pubblica hanno portato le proiezioni del deficit verso il 9 per cento del PIL entro il 2035. Moody’s, ancora una volta, arriva dopo la tempesta. Non previene, registra. Non guida, insegue. Come ha dichiarato il Segretario al Tesoro Scott Bessent, “Moody’s è un indicatore ritardato”. Una frase che sintetizza perfettamente l’ironia di un sistema che pretende di prevedere il rischio ma opera secondo logiche politiche, commerciali, e – soprattutto – reattive.
In questo scenario si inserisce anche l’impopolarità crescente di Donald Trump nei mercati internazionali. La sua linea economica aggressiva, basata su protezionismo, tagli fiscali non finanziati e conflitti commerciali, ha eroso la fiducia di molti investitori globali. La sua instabilità politica, le tensioni con i partner storici, e l’incapacità di contenere il debito pubblico minano la percezione di affidabilità degli Stati Uniti. È plausibile che Moody’s sia influenzato da questa atmosfera politica tesa e incerta, e che il declassamento rifletta, almeno in parte, non solo i numeri del bilancio federale, ma anche il deterioramento della leadership e della reputazione americana sul piano globale nell’immaginario collettivo delle borse. Ma non è questo il compito delle agenzie di rating.
La loro credibilità si fonda sull’illusione di imparzialità e competenza tecnica non sul giudizio politico. Ma come dimostrano sia la crisi dei subprime che l’attuale downgrade, queste istituzioni riflettono le contraddizioni del sistema neoliberale: sono arbitri che giocano nella stessa squadra delle multinazionali finanziarie, parte integrante di quel “capitalismo relazionale” che ha sostituito la concorrenza con il clientelismo.
Il problema non è solo Moody’s. È l’intero sistema che ha delegato il potere di giudizio a entità private, opache, a scopo di lucro e spesso colpevolmente lente. Il risultato è che i mercati oscillano sull’eco di decisioni tardive, mentre la politica fiscale – priva di controllo – continua a gonfiare bolle destinate a scoppiare. E mentre si discute della fine dell’eccezionalismo americano, come suggeriscono gli strategist di Bloomberg, il mondo assiste impotente a un’altra scena dello stesso dramma: un’agenzia che arriva in ritardo, una finanza che gioca d’azzardo con il debito pubblico di un’intera nazione, una società che paga il conto.
In un sistema dove le valutazioni si comprano e le crisi si ignorano finché non è troppo tardi, forse è tempo di togliere la parola “rating” dal vocabolario della fiducia. E iniziare a costruire un nuovo modello di trasparenza, responsabilità e controllo democratico sulle leve del potere finanziario. Perché se Moody’s ha perso la sua autorità, il vero rischio è che a perderla – presto – sia anche la nostra capacità di reagire.