Ma il movimento Fridays for future da che parte sta?

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di Antonio Di Siena


Il coltan è una preziosa lega di due minerali, la columbite e la tantalite, indispensabile per la moderna tecnologia. Prima fra tutte quella degli smartphone.

L’80% del coltan prodotto nel mondo proviene dalla provincia di Kivu nella RD del Congo. Uno dei paesi più ricchi di risorse e allo stesso tempo poveri del mondo.

Il business legato alla sua estrazione ha causato, secondo l’Onu, 11 milioni di morti solo per il controllo dei giacimenti. In un Paese immenso, dove lo Stato fatica a svolgere il suo ruolo, il coltan è a disposizione di chiunque.

Purché abbia un esercito privato.


E così, in meno di un decennio, si sono formate decine di milizie armate che hanno dato vita a una guerra sanguinosa. Centinaia di villaggi sono stati saccheggiati e distrutti, creando una massa enorme di profughi in fuga. Molti di loro, rimasti senza niente di cui vivere, sono finiti a lavorare nelle miniere di coltan.


Un minatore guadagna 3$ al giorno. Le donne, che ne trasportano a piedi 30Kg a testa dal cuore della giungla per centinaia di km, ne guadagnano 2$. I lavoratori più numerosi però sono i bambini che, per 1$ al giorno, estraggono senza sosta e senza alcuna protezione quella che in apparenza è solo un’innocua sabbia nera. Ma che in realtà è un minerale radiattivo.


Una volta estratto, il coltan, viene imbarcato in direzione di Cina e Malesia, su quelle immense navi cargo di cui ne bastano 15 per inquinare quanto l’intero parco auto mondiale. E lì la lega viene separata e i minerali ricavati venduti all’industria hi tech. Lasciandosi dietro quelle che un tempo erano le verdi colline di Kivu che oggi, scavate senza regole, hanno lasciato il posto ad enormi crateri a cielo aperto e falde acquifere inquinate.


Una volta trasformato, il coltan, servirà a produrre condensatori ad alta capacità e dimensioni ridotte per nuovi smartphone e computer super-sofisticati, delicatissimi e dalla scarsa longevità. Perché l’industria hi-tech’ (che produce 1,5 miliardi di telefonini l’anno), per restare fiorente e in attivo, ha bisogno di mettere sul mercato apparecchi usa e getta sempre nuovi, che vanno sostituiti ogni 2/3 anni.


Miliardi di telefonini e pc quindi, una volta rotti o semplicemente obsoleti perché superati dai nuovi modelli, tornano a casa, in Africa.


Una minuscola parte di essi vengono rivenduti in negozi dell’usato in Nigeria, in Ghana, in Senegal. Tutto il resto finisce nei Paesi sottosviluppati dove vengono bruciati per estrarne i materiali preziosi, rilasciando sostanze tossiche nell’ambiente, o semplicemente ammassati dove si può. Milioni di tonnellate di rifiuti non riciclabili che invadono interi villaggi trasformati in discariche a cielo aperto, di cui 350 mila tonnellate/anno sono esportate e stoccate illegalmente.


L’intero ciclo produttivo del comparto hi-tech, che nel 2007 immetteva in atmosfera l’1% della CO2 globale, oggi viaggia al 14% di emissioni l’anno.
Solo gli smartphone pesano l’11% sul totale delle emissioni mondiali. E questo trend è in constate crescita. Perché, stando ai dati diffusi dagli stessi produttori, un telefonino di ultima generazione causa quasi il 60% di emissioni in più rispetto a quelli sul mercato 5 anni fa.


E poi ci sono i data center che, nonostante abbiano nomi simpatici come ‘nuvola’, in realtà sono edifici giganteschi stracolmi di server pieni zeppi di foto e documenti archiviati online dagli utenti. Per salvare questa mole mastodontica di dati serve una immane quantità di energia che produce il 45% delle emissioni di gas serra dell’intero settore hi-tech.


Si ma che c’entra tutto questo con il Fridays for Future?

È presto detto.


Fra i principali sponsor e organizzatori della manifestazione globale a favore dell’ambiente c’é la One Campaign.


Una organizzazione no profit, con sede a Washington, di cui fanno parte personaggi come Bono Vox, David Cameron, l’ex primo ministro conservatore del Regno Unito (!), e Luisa Neubauer, l’attivista tedesca braccio destro (e pure sinistro) di Greta Thunberg.


Ora, se andate sul sito ufficiale dell’organizzazione (https://www.one.org/us/about/financials/) nella sezione finanze potrete leggere testualmente che: One campaign è finanziata da Coca-Cola, Bank of America, Open Society Foundation, Kraft, Bloomberg, E-bay. E soprattutto da Google, Apple e Microsoft.


Insomma non solo il gotha del capitalismo mondiale, ma soprattutto tre dei maggiori responsabili dell’inquinamento dell’industria hi-tech.


E allora si capisce bene perché non si dice a chiare lettere che la principale causa del disastro ambientale in atto è quel modello economico fondato sullo sfruttamento selvaggio del pianeta da parte delle grandi multinazionali che depredano le ricchezze naturali dei popoli ridotti in schiavitù, per trasformarle in profitti miliardari per pochi.


E invece ce la si prende con il solito povero stronzo pezzente che compra i prodotti del discount e non quelli bio, che gli costano quanto lo stipendio. O che gira con la macchina a gasolio euro3 del 2005 perché l’auto ibrida se la può permettere solo con un mutuo a 15 anni (ammesso glielo concedano).
 

Ecco perché quando si critica il movimento del Fridays for future per l‘evidente assenza di una denuncia seria al modello economico dominante, non lo si fa in modo astratto, filosofico o peggio pretestuoso.


Lo si fa in modo dannatamente concreto.


Ecco perché è assolutamente giusto, oltre che legittimo, diffidare di un movimento che, col sostegno di scuole e organi d’informazione, sta terrorizzando bambini di 7 anni raccontandogli che sta arrivando l’apocalisse.


Che per loro non c’è né speranza né futuro e la colpa è dei loro scriteriati genitori. Omettendo volutamente di spiegare a queste giovani generazioni il vero problema dove sta. Non lo si dice semplicemente perché non lo si può dire.


Perché se sei a libro paga del colpevole non puoi esserne il pubblico accusatore, ma soltanto il complice.

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