Regime change e coscienza “pulita”: quando il colonialismo si traveste da salvezza
di Pasquale Liguori
C’è un colonialismo più subdolo di quello armato: è quello che si maschera da libertà, si traveste da diritto, si presenta come salvezza. È il colonialismo dei buoni sentimenti, quello che pretende di separare concettualmente un popolo dal proprio Stato, solo quando quest’ultimo non accetta di rientrare nei ranghi della democrazia liberale made in Occidente. Questa separazione, lungi dall’essere neutrale, è un’arma ideologica. Carl Schmitt la definiva una “decisione sul nemico”: la trasformazione di un ordine politico autonomo in un'entità moralmente inaccettabile, da annientare. È ciò che sta accadendo oggi contro la Repubblica Islamica dell’Iran, non solo con le bombe, le sanzioni e i sabotaggi, ma attraverso un’offensiva ideologica che riscrive la realtà con i suoi chierici in penna anche tra i sedicenti progressisti occidentali.
Uno degli esempi più emblematici di tale postura colonial-liberale travestita da buon senso è l’editoriale di Michele Serra, “E il famoso cambio di regime?”, nella sua rubrica l’Amaca del 26 giugno per la Repubblica. In poche righe, Serra riesce a condensare l’arroganza etnocentrica, la superficialità ideologica e il cinismo morale di un intero ceto intellettuale che ha fatto dell’umanitarismo una copertura per l’imperialismo. Il pezzo parte dall’accattivante premessa “Più sicurezza, meno libertà” per approdare con naturalezza al punto: il “cambio di regime in Iran” sarebbe “l’unico salto di qualità democratico e umanitario” possibile. Sarebbe, cioè, l’unica giustificazione morale per l’avvenuto attacco israelo-americano.
Così il regime change diventa non un crimine coloniale, ma un avanzamento della civiltà. La distruzione di uno Stato sovrano non è più atto di guerra, ma gesto di liberazione. E chi si oppone a questa narrazione è complice della “tirannia dei vecchi maschi misogini”. In questo schema, la realtà storica della rivoluzione del 1979 - tra le rare insorgenze moderne capaci di coniugare decolonizzazione reale e legittimazione popolare - viene liquidata come un incidente autoritario. Il popolo iraniano? Degno di esistere solo se dissociato dal suo Stato. La sovranità? Accettabile solo se delegata a un modello occidentale.
Lo storico iraniano Hamid Dabashi definisce l’Iran post-rivoluzionario come un caso di “sacralizzazione del politico” non nel senso della teocrazia dispotica immaginata da Serra, ma come forma de-occidentalizzata e autoctona di esercizio della sovranità. È questa alterità che risulta insopportabile all’intellettuale coloniale: il fatto che esistano forme di resistenza al capitalismo liberale, all’universalismo bianco, alla democrazia esportata con bombe e droni.
Quando Serra scrive che gli ayatollah festeggeranno “stringendo i ceppi ai polsi e alle caviglie dell’opposizione” e che le iraniane “fuggite” “sorridono allo scampato pericolo”, egli cancella deliberatamente milioni di donne e uomini iraniani che difendono la loro rivoluzione, anche nella critica interna, come un patrimonio di dignità politica. Si dà voce solo a chi si presta al copione occidentale, mentre si silenziano intellettuali, studiosi, attivisti e cittadini iraniani che, anche criticando lo Stato, non ne auspicano la distruzione. È una violenza epistemica: ciò che non rientra nella sceneggiatura del salvataggio liberale, non merita parola.
Questo schema - la separazione tra popolo e Stato come preludio all’intervento è stato già sperimentato in Iraq, in Libia, in Siria. In Palestina, dove si pretende di sostenere il popolo palestinese solo se dissociato dalle sue forme di resistenza armata e politica, come Hamas. È sempre lo stesso copione: trasformare l’autodeterminazione in patologia, l’alterità politica in devianza da curare con sanzioni, bombardamenti o simpatie mirate.
Il liberalismo occidentale non tollera che esistano alternative. Ecco perché l’Iran, come la Cina, la Russia, Hezbollah, Hamas, gli Houthi e le forze dei BRICS, sono visti come regimi: non per come trattano i diritti umani - che l’Occidente stesso calpesta quotidianamente - ma per il solo fatto di esistere fuori dal modello neoliberale. In termini gramsciani, la Repubblica Islamica è un blocco storico: un’alternativa materiale, culturale e spirituale all’egemonia capitalista.
A rendere ancora più insopportabile questa insubordinazione è il fatto che l’Iran ha sostenuto concretamente, politicamente e militarmente, la resistenza contro il sionismo. Non solo a parole, ma con la forza e la visione. E allora, come non vedere che chi oggi si presenta come “solidale con Gaza” ma inneggia al rovesciamento della Repubblica Islamica, è il più zelante complice degli interessi israeliani e statunitensi? Questo è il caso di molti attivisti occidentali e di oppositori iraniani esiliati, che sfruttano il genocidio a Gaza come trampolino per riproporre lo scenario iracheno: distruggere lo Stato, promettere la democrazia, ottenere il caos.
È in questo contesto che l’editoriale di Serra va letto non come semplice esercizio d’opinione, ma come parte attiva di un’operazione ideologica più ampia. L’autore, già promotore dell’evento per l’“orgoglio europeo” a Roma, incarna perfettamente l’intellettuale organico al suprematismo liberal: quello che ovviamente preferisce Israele a Hamas, ma anche l’UE ai popoli, e la NATO alla decolonizzazione.
Riconoscere la centralità dell’Iran rivoluzionario oggi non significa negarne le contraddizioni. Significa difendere la possibilità che vi siano strade diverse. Che la sovranità non coincida con l’adesione a un modello. Che la storia non sia finita. O si sta con chi resiste, o si è complici del dominio.